Il cambio di politica societaria aveva determinato la prima vera flessione dell’era De Laurentiis. Che poi ha ignorato la piazza ed è risalito
Come abbiamo raccontato, in 150 giorni Aurelio De Laurentiis è passato da nemico del popolo a idolo delle folle. Se prima gli veniva rinfacciata letteralmente qualunque dichiarazione, finanche una sacrosanta lamentela per il calendario assurdo della Coppa d’Africa, oggi si può permettere impunemente persino di denigrare la pizza, divenuto negli ultimi anni elemento identitario della città come il Vesuvio e quasi quanto Maradona.
Si tratta di una giravolta forse senza precedenti, come se nei sondaggi di gradimento che periodicamente vengono divulgati sui politici si registrasse il passaggio di un leader di partito dal 5% al 95%.
Ma cosa è cambiato realmente in questi mesi? Cosa è stato capace di produrre questo eclatante rovesciamento dell’umore dei tifosi? La risposta è una ed è semplicissima, è cambiato il rendimento della squadra, che si avvia alla conquista del terzo scudetto a velocità siderale e con un distacco record sulla seconda in classifica. Nonostante, quindi, gli slogan più amati dei tifosi facciano riferimento ad un sostegno incondizionato per la squadra (al di là del risultato, Forza Napoli Sempre, etc. etc.), la cruda verità è che vincere conta e conta al punto di rendere simpatico persino quel De Laurentiis dipinto nei mesi e negli anni scorsi come avido, satrapo, profittatore, “pappone”, speculatore e al quale una cospicua, forse maggioritaria, sicuramente trasversale parte della tifoseria ha chiesto a più riprese di vendere il Napoli, di andarsene a Bari, di liberare la squadra e di lasciare il posto a chiunque: fantomatico fondo, sceicco, cordata, imprenditore che fosse.
Se da un lato l’euforia per la stagione attuale è ovviamente comprensibile e condivisibile, non si può non fare, però, una riflessione sull’assurdità del comportamento del tifo napoletano negli ultimi anni e sarebbe il momento, soprattutto per la parte di sostenitori che dovrebbe essere più riflessivi, di fare pace con sé stessi e con la realtà.
I risultati del Napoli dell’era De Laurentiis, lo abbiamo detto tante volte, sono straordinari. Mai il Napoli nella sua storia è stato così a lungo e stabilmente nelle posizioni di vertice della Serie A. I 4 secondi posti collezionati a partire dal 2010/11 costituiscono una fantastica eccezione nella storia degli azzurri, che prima dell’avvento di De Laurentiis ne avevano collezionati altrettanti, ma in 78 anni di storia. Negli stessi anni sono arrivate anche tre Coppe Italia e una Supercoppa, tante quante ne erano state vinte prima. Per eguagliare completamente il palmares dell’era pre-aureliana manca lo scudetto e la vittoria di una coppa europea, solo avvicinata nell’anno di Benitez e della semifinale di Europa League. Non è poco, certo. Sarebbero la ciliegina sulla torta, ma parliamo di una torta costruita in 20 anni contro i quasi 80 precedenti. E parliamo di scudetti ottenuti grazie all’epifania napoletana del più grande giocatore di tutti i tempi. Come dire, un evento irripetibile che, non a caso, ancora celebriamo.
I numeri sono numeri, non si possono confutare. Chi si dovesse sorprendere a negare i fatti farebbe bene a ricorrere ad immediate cure mediche. Questi risultati sono ancora più straordinari se consideriamo che sono stati ottenuti da un parvenu del calcio e con una squadra rilevata quando militava in Serie C dopo un fallimento. E sono stati ottenuti con una strategia societaria abbastanza coerente, seppur con qualche sbandata che dopo evidenzieremo.
I punti fermi di De Laurentiis sono stati quelli di avere una società snella, se non scarna, a conduzione familiare, caratterizzata da una fortissima attenzione alla sostenibilità economica e dall’evitare indebitamenti. Una rivoluzione copernicana in un mondo caratterizzato dalle spese faraoniche, anche quando i soldi non ci sono.
Un punto semifermo, invece, è stato quello del rinnovamento continuo. Fino ad un certo punto, direi fino al secondo anno di Benitez, il Napoli ha comprato e venduto di continuo, cercando di valorizzare in fretta i giocatori acquistati, per venderli e acquistarne di nuovi altrettanto o addirittura più forti. La staffetta degli attaccanti che si sono susseguiti è esemplificativa: nel passare da Quagliarella a Cavani, da Cavani a Higuain e da Higuain a Milik, il Napoli ha incassato abbastanza per allestire squadre fortissime che hanno sfiorato lo scudetto.
Questo ciclo virtuoso si è poi interrotto con l’avvento di Sarri. Il Napoli, con l’eccezione di Jorginho, ha smesso di vendere ed è arrivato a perdere a zero giocatori che aveva valorizzato moltissimo. Callejon, Insigne, Mertens e Milik sono andati via senza portare un solo euro nelle casse azzurre, l’investimento su Meret era stato accantonato per dare spazio ad Ospina, mentre per Hamsik, Koulibaly e Allan la vendita è avvenuta quando il loro valore era ben lontano dai massimi raggiunti. Non a caso, con l’interruzione della virtuosa pratica del rinnovamento sono arrivati risultati meno prestigiosi, con la Champions mancata per due anni consecutivi nella sciagurata avventura di Gattuso in azzurro.
Prima della stagione in corso e contro il parere unanime, rumoroso e sguaiato di stampa e tifoseria, è finalmente ripreso il ciclo di rinnovamento. Insigne, Mertens, Ospina, Fabian Ruiz e Koulibaly sono stati lasciati andare e al loro posto sono arrivati i giovani campioni che stanno incantando l’Italia e l’Europa. Era scontato che andasse tutto così bene? Niente affatto. Kvaratskhelia e Kim avrebbero ben potuto avere un impatto minore sulla Serie A. Uno dei due o entrambi avrebbero potuto avere problemi di adattamento. Simeone e Raspadori avrebbero certamente potuto risultare meno determinati e determinanti nelle occasioni a loro disposizione. Ma se questo fosse accaduto, avrebbe dovuto essere diverso il giudizio sulla società?
A mio avviso no, per niente. Quello di rinnovarsi, vendere e comprare è l’unico modo che ha il Napoli di mantenersi ad alti livelli, giocare le competizioni europee e provare il colpaccio ogni tanto (come quest’anno). Chi pensa che gli azzurri possano costruire una squadra di campionissimi affermati (e conseguenti ingaggi fantasmagorici) vive nel mondo dei sogni. Lo dicevamo qualche tempo fa, il Napoli è una squadra di seconda fascia in Italia ed Europa, la Serie A non è più un campionato attrattivo, il che ci rende il posto ideale per giocatori giovani e vogliosi di emergere. È una qualità che ci conviene sfruttare sempre nel modo migliore, come fanno anche altri club in Europa, su tutti Genk e Ajax.
Quest’estate in città vennero esposti manifesti che inneggiavano a Mertens e striscioni che offendevano Kim. Il passo in avanti che sogniamo non è solo quello dello scudetto, ma quello di una tifoseria che, dall’anno prossimo, saluti senza drammi chi andrà via e accolga con entusiasmo chi arriverà.
Se quest’anno ci stiamo divertendo così tanto e se vinceremo il tricolore, non sarà perché De Laurentiis è cambiato, né perché Giuntoli ha pescato un gratta e vinci fortunato, né, men che meno, perché la società ha ascoltato i deliri della tifoseria, ma solo ed esclusivamente perché il Napoli è tornato a fare il Napoli sul mercato. Ovviamente, nella ricerca di colpi come Hamsik, Lavezzi, Cavani, Kim, Osimhen, Jorginho, Koulibaly. Raspadori e Kvaratskhelia, si può incappare in qualche Vargas, Michu, Fideleff e Simone Verdi, questo ci sta e non toglie nulla alla giustezza dell’operato della società, almeno finché si rimane in zona Europa, cosa che al Napoli accade da oramai 13 stagioni consecutive. 13, proprio come i punti di vantaggio che abbiamo in campionato.