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In cinque mesi De Laurentiis è passato dalla Digos all’acclamazione

Il suo Napoli è culturalmente estraneo a Napoli, perciò vince. È figlio di scelte impopolari, come il Milan lo scorso anno. È ora che il calcio cambi narrazione

In cinque mesi De Laurentiis è passato dalla Digos all’acclamazione
De Laurentiis a Castel Volturno nell'aprile del 2022 dopo la sconfitta per 3-2 a Empoli

Appena cinque mesi fa, a Castel di Sangro, la Digos consigliò a De Laurentiis di non farsi vedere allo stadio. Apparve solo all’ultima amichevole dopo un’estate trascorsa dietro le quinte. A Dimaro furono fischi. In Abruzzo il clima non era migliore. Imperversavano gli A16 che non sono un gruppo rock. Erano quelli del “vattene a Bari”. Se ad agosto ci fossero state le elezioni comunali, la lista A16 avrebbe preso almeno il 10%. In città era tutto un “Ciro, Ciro!”. Il Napoli veniva dipinto dai media come un club in disarmo, in smantellamento. Solo perché aveva finalmente detto addio a calciatori anziani in evidente declino. Calciatori che ancora oggi godono di uno storytelling del tutto fuori fuoco.

Di domenica sera, del dopo vittoria sulla Roma, circolano video di tifosi del Napoli che acclamano Aurelio De Laurentiis. Mentre lui peraltro dalla macchina fa cenno di sgomberare per consentirgli di passare. Sublime. Anni e anni di “pappone” andati in archivio. La rivoluzione copernicana della piazza ci fornisce l’ennesima conferma della transitorietà delle nostre esistenze.

È importante, è vitale ricordare dove, come e in quali condizioni ambientali è nato questo Napoli che sta dominando la Serie A. Perché il calcio non può essere solo cibo per cosiddetti tifosi che attendono di vincere per fare festa. Festa che a loro sarebbe dovuta non si capisce per quale motivo. A noi interessa l’aspetto politico del calcio e la comprensione dei fenomeni. A far festa sono bravi tutti.

Parlare di vittoria, ovviamente, è prematuro. Ma di dominio no. Soprattutto in tempi in cui la narrazione largamente dominante di Napoli è intrisa di luoghi comuni, di quella retorica bolsa che purtroppo da circa due decenni affligge la nostra città. A noi premono le ragioni politiche, perché tali sono. E questo dominio è quanto di più distante dalla narrazione spiccia di Napoli e dei suoi aedi. Nasce, come ricordato da Giuntoli (la frase in esergo del Napolista), in antitesi al popolino (che a Napoli comprende anche professionisti, uomini di cultura, non è questione di censo). Questo dominio nasce in antitesi al populismo, come sfida al populismo, con scelte impopolari, visione aziendale, coraggio imprenditoriale. E soprattutto tanta, tanta competenza (non dimentichiamo le contestazioni a Spalletti). Perché il calcio è un’industria e le decisioni industriali non si prendono al bar o sui social.

È questa la Napoli da esportare. La Napoli e il Napoli di De Laurentiis. Altro che cittadinanze elargite per i nomi dati ai figli. O metro che passano, quando va bene, ogni tredici minuti (come il vantaggio degli azzurri in classifica). Questo Napoli domina in Italia perché è fondamentalmente un estraneo nel tessuto cittadino. Ed è il motivo per cui il presidente è sempre stato avversato. E non solo dal cosiddetto popolino. Anzi. Oggi Napoli è un faro nel calcio italiano. Un esempio di come si possa fare impresa di qualità, di eccellenza, rispettando le leggi e i vincoli di bilancio. Come peraltro, l’anno prima, era accaduto al Milan. Chi non segue la massa, vince. A ogni latitudine.

Forse proprio da Napoli potrebbe partire la spinta per cominciare a raccontare il calcio in maniera diversa. A farlo come si racconta una grande industria, non come se fosse un baraccone per nutrire masse di beoti. A Napoli come a Milano, come a Roma. Prima avverrà questa profonda trasformazione, prima ci libereremo di notizie come quella di Zaniolo minacciato, o di De Laurentiis cui viene consigliato di non mostrarsi troppo. E prima capiremo che la Juventus di Agnelli invece di essere un capitolo luminoso della storia del calcio italiano, era solo un’ennesima tappa verso il disastro oltre che un momento di mancato rispetto delle regole.

Il popolo è bue per definizione ma viene anche nutrito da un sistema informativo distorto. Al momento il calcio italiano ci sembra in un vicolo cieco. Con gli juventini che quasi vent’anni dopo hanno dato torto a Nanni Moretti: l’attacco (virtuale) al Palazzo di Giustizia che lui aveva immaginato mosso dalla piazza berlusconiana, invece ha le tinte bianconere. Anche quel popolo, in fondo, è figlio e vittima della propaganda. È il caso che il calcio cominci a essere raccontato come una grande industria. E che le istituzioni tutelino sempre il sistema e non solo quando gli equilibri politici precedenti sono saltati.

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