Sempre più chiusi nella settimana tipo e nel razzismo uguale goliardia, siamo lontani anni luce dall’Europa calcistica e gli schiaffi presi non ci cambiano. Un po’ come nel rugby
A parte gli sfottò e la derisione – più che legittimi – per quest’ennesima sconfitta europea della Juventus, c’è qualcosa che stona in queste discussioni del giorno dopo. Si seguono registri prestampati. Due su tutti: uno riguarda Allegri e il suo presunto non gioco; e l’altro il declino del calcio italiano. Che, in questo caso, avrebbe visto la propria storica testa di serie numero uno sconfitta con punteggio roboante da una presunta modesta formazione spagnola.
Questo pensiero evidenzia, una volta di più, la scarsa considerazione che in Italia si ha delle coppe europee, in modo particolare dell’Europa League. In Italia, nonostante oggi sia possibile seguire in tv i principali campionati europei, si discute di calcio quasi come se esistesse soltanto la Serie A.
Ora è vero che il Villarreal in Liga è al settimo posto, al di sotto delle proprie potenzialità, ma parliamo di una squadra che lo scorso anno ha vinto l’Europa League competizione che mai nessuna squadra italiana ha conquistato (nel 99, quando la vinse il Parma, era ancora Coppa Uefa ). Il Villarreal sconfisse in semifinale l’Arsenal e in finale, ai rigori, il Manchester United. Non proprio Solbiatese e ProVercelli. Parliamo di una squadra abituata a certi palcoscenici, a certe pressioni, che sa cosa vuol dire giocare le partite sui 180 minuti. E ricordiamo che ha perso ai rigori la Supercoppa europea con il Chelsea di Tuchel.
In Italia, a livello giornalistico ma anche tra gli stessi allenatori (pensiamo a Sarri, lo scorso anno a Gattuso, ma in linea di massima un po’ tutti), le coppe europee sono considerate una sorta di fastidio che impediscono di poter completare la ormai leggendaria settimana tipo. È un modo di ragionare neanche novecentesco, perché nel Novecento le italiane le coppe europee le vincevano eccome. È un modo di ragionare miope e fondamentalmente fondato sulla chiusura mentale. Che sta diventando, ahinoi, chiusura geografica. La condizione asfittica del calcio italiano è figlia di tante componenti. Anche delle ristrettezza di vedute che ci contraddistingue, a partire dagli allenatori. Tant’è vero che si sta creando un solco sempre più ampio tra tecnici europei (e tra questi ci sono, ad esempio, anche i nostri Conte e Ancelotti) e gli italiani.
È un po’ quel che accade in altri registri. Innanzitutto le decisioni arbitrali – ce ne siamo accorti nel caso Donnarumma – e soprattutto le condizioni minime di civiltà in cui opera il calcio italiano. Condizioni di sottosviluppo culturale. I cori razzisti di Verona – contro Napoli, contro Osimhen, contro Koulibaly – hanno portato alla chiusura della curva solo per il clamore suscitato dal tristemente celebre striscione esposto all’esterno del Bentegodi. Ma il calcio italiano si è dotato di norme che di fatto considerano innocui i cori razzisti. Lo hanno fatto scientemente. Da noi il razzismo è goliardia. Uno schifo che probabilmente altrove provocherebbe una riprovazione collettiva e rumorosa. Da noi, viene accettata e condivisa di buon grado.
In Italia quasi nessuno ha fatto notare la codardia del Verona Calcio (parliamo del caso specifico ma le altre società si sarebbero comportate allo stesso modo) che non ha affatto condannato lo striscione in cui si auspicava il bombardamento su Napoli. La giustizia sportiva si è affrettata a far sapere che non poteva intervenire perché l’episodio è avvenuto all’esterno dello stadio. Ricordiamo che nel 2015 alcuni tifosi del Chelsea si resero protagonisti di un gesto lì considerato ignobile: in occasione di Psg-Chelsea, impedirono ad alcuni cittadini neri di salire sui treni della metro. “Sei nero, non puoi salire”. I tifosi vennero individuati grazie alle telecamere e il club li espulse a vita dal proprio stadio. Il Verona ha persino avuto paura di citare lo striscione in quel che in Italia hanno spacciato per un tweet di condanna e invece era solamente l’ennesima dimostrazione della tragedia di un calcio ridicolo.
E così finiamo per restare sbalorditi, come accaduto ieri sera guardando Amazon Prime Video, quando una squadra italiana (ieri la Juventus) viene trattata senza barocche costruzioni in politichese, nemmeno quando c’è da dire che il rigore contro è rigore.
Questo per dire che sono numerosi i motivi per cui siamo periferia calcistica, e non solo. E gli schiaffi presi non servono a niente. Il calcio italiano sta somigliando sempre più al rugby: continua a perdere ma nulla cambia. Con l’aggravante che nel rugby non abbiamo la tradizione che abbiamo nel calcio.
Infine Allegri, anche se c’entra poco in questo discorso. Carissimi amanti della presunta estetica calcistica, Allegri non è stato battuto da un maestro della nouvelle vague. Quel che oggi brucia ad Allegri, è che è stato battuto da Emery con le sue stesse armi. Tant’è vero che oggi sulla Gazzetta Arrigo Sacchi – autoproclamatosi sacerdote della bellezza pallonara – bolla entrambi gli allenatori: «Il calcio non è questo. Tutte e due le squadre pensavano a non prendere gol». Orrore.
Emery è stato più bravo, lo ha battuto con le sue armi. Al punto che il tecnico di Livorno, poco presente a sé stesso dopo le sconfitte, li ha quasi accusati di aver rinunciato a giocare, «erano in nove dietro la linea della palla». Uno: non c’è niente di male. Due: è come se Obelix denunciasse gli eccessi a tavola.
Per concludere, i presunti esteti dovranno aspettare un’altra occasione per condannare il tecnico della Juventus che stavolta, oltre ad avere una squadra più scarsa, si è imbattuto in un allenatore più allegriano di lui.