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Il panda Benitez, sempre più straniero nello zoo del calcio italiano

Il panda Benitez, sempre più straniero nello zoo del calcio italiano

I fatti separati dalle opinioni. Il Napoli pareggia a Mosca zero a zero e si qualifica per i quarti di finale di Europa League. I quarti di finale in una coppa europea sono un traguardo che il Napoli aveva raggiunto tre volte nella storia: nel 1962-63 in Coppa delle Coppe, eliminati dall’OFK Belgrado 3-1 allo spareggio; nel 1976-77, sempre in Coppa delle Coppe, eliminati in quella semifinale con l’Anderlecht che per anni è stato uno dei racconti cult del nostro indottrinamento; e infine il 1988-89, quando ai quarti superammo la Juventus e poi quella Coppa, la Uefa, la vincemmo. Tre volte in 55 anni di coppe europee. Con ieri, quattro. 

La prima volta del Napoli di De Laurentiis, che quindi prosegue quel processo di internazionalizzazione caro al presidente e per il cui sviluppo è stato ingaggiato due anni fa Rafa Benitez (allenatore la cui bacheca è ben più ricca di quella del nostro club).

In altri tempi, con un altro contesto – termine che in questi giorni di buriana giudiziaria va per la maggiore – ci sarebbe stato solo da sorridere e festeggiare. Ma i tempi cambiano, non sempre in meglio, e il rapporto tra la tifoseria e la propria squadra di appartenenza somiglia sempre più a quello tra vittime dell’usura e strozzini. A ogni giro o ritardo, il tasso d’interesse cresce ulteriormente. E così succede che la Dinamo Mosca viene relegata a squadretta o che la conquista di un traguardo storico viene protocollata con la fastidiosa nonchalance di chi è nauseato dalla quantità di trofei conquistati.

Vorremmo qui sommessamente ricordare che il Napoli di Maradona, nella trionfale cavalcata del 1989, eliminò Paok Salonicco, Lokomotiv Lipsia (in trasferta una delle partite più orrende della storia del calcio) e Bordeaux (vittoria lì 1-0 e zero a zero al San Paolo in un incontro per cui oggi si scenderebbe in piazza per la qualità della prestazione offerta). Ma, soprattutto, un tempo si era tutti dalla stessa parte. Nessuno aveva da ridire se in finale ci capitava lo Stoccarda invece che il Real di Puskas. Altri tempi. Negli altri anni, quel Napoli tornò a casa sempre presto in Europa: Tolosa, Real Madrid, Werder Brema (non vi diciamo quanto finì a Brema, culliamoci con la memoria selettiva splendidamente spiegata da Raniero Virgilio) e Mosca appunto. Mosca, dove il Napoli era sempre stato eliminato. Fino a ieri.

Considerato da quegli incompetenti dei bookmaker il favorito per la vittoria finale, il Napoli nei quarti affronterà il Wolfsburg. Avversario difficile, è secondo in Bundesliga e ha appena eliminato l’Inter. Ce la giocheremo, possiamo vincere e possiamo perdere. Direi che siamo cinquanta e cinquanta. Potremmo anche aggiungere – e infatti lo facciamo – che delle squadre che arrivano dalla fase a gironi, il Napoli è quella che ha concesso meno gol: solo quattro, una media di 0,4 per gara – o uno ogni 225 minuti. La squadra di Benitez ha anche effettuato il maggior numero di tiri verso (77) e fuori dalla porta (67) nella competizione, e ha colpito otto volte il palo. L’attacco più prolifico è della Dinamo Kiev, avversaria della Fiorentina, che ha segnato 22 reti. 

Ma è comunque un gioco a somma zero. Per salvarsi dalle critiche (eufemismo) il Napoli dovrebbe vincere ogni partita tre a zero, tirare in porta una ventina di volte e colpire un paio di pali. Sempre. In realtà, come abbiamo visto anche ieri, il problema non è solo napoletano. È nazionale. A Roma l’idillio si è rotto. La chiesa è stata ritrasferita in periferia e Garcia, come Inzaghi, sembra invecchiato di dieci anni. Gli si è ritorto contro il clima da lui stesso alimentato. Era autunno, all’indomani del 7-1 dal Bayern, quando scrivemmo della romanizzazione di Garcia. Non ha posto argini il francese, ha precipitosamente messo da parte un approccio diverso e ora ne sta pagando le conseguenze. I calciatori sono stati chiamati a rapporto dagli ultrà, come avvenne qualche mese fa a Parma. Sulla staccionata opposta a quella che rese famoso Genny ’a carogna.

Ma non è solo Roma. Ieri sera San Siro ha fischiato. Come se l’Inter potesse eliminare il Wolfsburg. E Mancini si è schierato col pubblico: hanno ragione. Nessuno azzarda un discorso diverso, nemmeno il Mancio che pure sta trasferendo a Milano un po’ della sua esperienza inglese (parlo di approccio alla partita e al calcio, non solo di risultati visto che le inglesi stavolta sono già uscite dalle coppe). Ma non sono solo Roma e Inter. La squadra terza in classifica, la Lazio, ha un presidente – Lotito – ancor più criticato del nostro. La Roma biancazzurra ha dato vita a scioperi del tifo, ha schierato tutti – ultras e non ultras – contro la dirigenza, come se fossero abituati a chissà quale livello. Hanno vinto due scudetti e il secondo grazie a una gestione che poi li ha portati diritti alle soglie del fallimento. Potremmo aggiungere il Milan, la cui curva ha invitato alla diserzione di San Siro. E tanti altri ancora. Insomma, la situazione è omogenea. Non c’è nessuno che alzi il ditino e spieghi che il tifo altrove è altra cosa, è passione sportiva non violenza o sfoghi di altri malesseri.

In realtà proprio nessuno no. Un signore che in questi due anni non si è lasciato contaminare dal nostro modo di concepire il calcio c’è. Un signore che anche ieri sera, dopo aver portato il suo club a uno storico traguardo, ha spiegato che «in italia le squadre si adattano all’avversario, giocano per fronteggiarlo. Credo che sia importante invece per la crescita di una squadra crearsi una propria identità». In questi due anni ha parlato un linguaggio ai più sconosciuto. E per questo è stato offeso, deriso, criticato in modo volgare non solo dagli avversari. Anzi, non tanto dagli avversari. Ha provato a parlare di cultura sportiva, dell’importanza di un ambiente compatto, del significato di una sconfitta in un processo di crescita. Parole al vento, ovviamente. Rafa Benitez è un panda nel calcio italiano. Ma un panda che non vuole rimanere in questo zoo, un panda che con ogni probabilità vuole tornare a casa sua dove parlano la sua lingua. E fondamentalmente chi gli vuole bene non può che esserne contento. Vedremo quel che accadrà. Non so perché, ma l’eventualità non mi rattrista. Forse perché non ne sarei sorpreso, come tanti del resto. Ora sono troppo impegnato a godermi ogni momento. Poi, sarà quel che sarà.
Massimiliano Gallo  

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