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Oliver Sacks ci spiega come mai non ricordiamo i fischi al Napoli di Maradona

Oliver Sacks ci spiega come mai non ricordiamo i fischi al Napoli di Maradona

“Era iniziata con una festa. Purtroppo questa festa è stata rovinata con i fischi impietosi da parte dei tifosi del Napoli all’indirizzo dei loro beniamini. Ed è un rapporto, purtroppo, che va sempre più deteriorandosi questo tra i tifosi e questa squadra che, aldilà di quello che sta facendo adesso, ha regalato un sacco di soddisfazioni” 

È il 24 ottobre 1990 e a pronunciare queste parole su Tele+2 è Bruno Longhi, che commenta il post partita tra Napoli e Spartak Mosca, ottavo di finale della Coppa dei Campioni. La seconda delle uniche due partecipazioni che il Napoli annovera nella sua storia. Il pareggio a reti inviolate farà da prodromo ad un ritorno doloroso, col passaggio dei sovietici dopo una serie di tristemente famosi calci di rigore.

La squadra che in quella sera novembrina verrà fischiata – impietosamente, come commenta a caldo il cronista – colpisce un paio di pali, ed è l’undici di Maradona, il più grande giocatore di sempre; è la medesima squadra che due mesi prima ha battuto per 5 a 1 la Juventus aggiudicandosi, in modo spettacolare, la sua prima Supercoppa italiana; ed è, cambio più cambio meno, quella che ha riportato a Napoli lo scudetto, il secondo della storia, sette mesi prima. Piovono fischi, alla fine della partita di andata, quando lo scontro è ancora per metà da giocare.

I fischi impietosi per “la squadra che negli ultimi anni ha vinto più di tutti” – come ricorda in studio il giornalista di Casorate Primo, provincia di Pavia, dunque non esattamente un campano – fanno riflettere oggi sul senso della memoria. Perché l’impressione è che ciò che oggi ci imbriglia, ci costringe nei movimenti, determina i nostri giudizi – insomma, ciò che ci fotte, diciamola chiara – è la memoria. Il ricordo di quanto è stato ed i riferimenti che adoperiamo, singolarmente e come collettività, per scegliere la nostra condotta nel presente. Già, perché ad ascoltare le voci dei nostri ricordi di quegli anni sembra che il racconto si assesti sull’immagine di una tifoseria coesa e generosa che dava man forte ad una squadra di tali campioni e tanta classe da spianare qualsiasi montagna e alleviare qualunque sofferenza; mentre, stando alla grigia cronaca, pare che quella tifoseria – anzi, pare che noi, noi tifosi, fino ad alcuni anni fa – eravamo pronti a fischiare il più grande giocatore del mondo ed i suoi fortunati comprimari, giusto una manciata di giorni dopo aver vinto una coppa e uno scudetto. 

Non c’è da vergognarsene. La memoria è una presa in giro. Non esiste, per come la definiamo. D’altra parte, se così non fosse, se bastasse tramandare le storie di padre in figlio o di amico in amico, di bocca in orecchio, per riportare e conservare la verità storica, le organizzazioni sovrannazionali non spenderebbero milioni di euro per tenere in piedi, ed in buono stato, i luoghi della memoria; le pietre, infatti, non mentono, mentre gli uomini mentono a se stessi e agli altri con molta facilità. Più prosaicamente, nel nostro caso, i filmati di Youtube sono più sinceri dei racconti accorati dei tifosi. 

Un grande neurologo, Oliver Sacks, descrive molto bene questo processo in un interessante articolo comparso sul The New York Review of Books: la memoria non è il risultato di un unico flusso, non ha una natura monolitica, ma dialogica. E’ l’incontro di più voci interiori che si fondono ma vivono anche in contraddizione e cercano di elidersi, di soffocarsi a vicenda. La memoria è, in sostanza, oltre che il frutto della esperienza, anche il risultato del lavoro di tante menti nella nostra mente: “È sorprendente rendersi conto del fatto che alcuni dei nostri ricordi più cari probabilmente non sono mai esistiti, o sono esistiti in vite di altri. Ho il sospetto che molti dei miei entusiasmi ed impulsi, che sembrano appartenermi, derivino da cose suggeritemi da altri, che mi hanno fortemente influenzato, consciamente o inconsciamente, e che poi ho dimenticato.” 

Eppure la memoria del singolo, edulcorata, testimone di fatti riveduti e corretti, ha una sua funzione creatrice: “Tutti dimenticano, specie gli scrittori, i pittori e i compositori, poiché la creatività può richiedere queste dimenticanze, in modo che i ricordi e le idee di qualcuno possano rinascere in un nuovo contesto e una nuova prospettiva.”

La memoria del singolo, dunque, se messa al servizio della creazione, serve all’arte. Ma non alla storia. E quando raccontiamo di quegli anni, quei famigerati sette anni, noi rendiamo onore alle voci delle passioni che essi hanno scatenato, alle pulsioni che le nostre vite in quei giorni hanno sviluppato; noi, insomma, descriviamo l’arte che quella arte podistica ha generato, ma non diciamo nulla, neppure un punto e una virgola, della storia. Quegli anni fatati, nella cronaca, non sono mai esistiti. Sono esistiti solo i nostri occhi che hanno voluto vederli. 

Gli anglosassoni codificano questo comportamento con il loro tipico humor secco e bilanciato, definendoli “Good old times (which never were)” – sembra quasi una frase a due voci, quella ufficiale e di rappresentanza da esporre al pubblico e quella più profonda ma meno evidente, che di rincalzo e tra parentesi sancisce la verità storica. I bei tempi andati non sono mai esistiti. Qualche secolo prima, col suo tipico latino mellifluo e disincantato, Orazio scriveva: 

difficilis, querulus, laudator temporis acti / se puero, castigator censorque minorum 

“difficile, lamentoso, loda il tempo andato, quando era un fanciullo, fustiga e censura i giovani”. Il pericolo è sempre stato lo stesso: permettere ai nostri ricordi, legittimi, di tracimare e rendersi la verità, e trasformarci a quel punto in vecchi lamentosi, queruli, ammorbanti. “Non si può ripetere”, “non ci sarà mai più quanto c’è stato una volta”. Il mio tesoro è solo mio. Punto.

Quando ricordiamo, dunque, elaboriamo innanzitutto un racconto, di o per noi stessi. Ma non siamo autori di prima mano. Siamo, piuttosto, ascoltatori delle nostre voci interiori. E la nostra memoria è selettiva, decide di riportare una traccia e contemporaneamente lasciare sedimentare e scomparire le rimanenti. Come è stato recentemente dimostrato scientificamente da un gruppo di ricercatori delle Università di Birmingham e Cambridge: “Ricordare è uno dei meccanismi per cui si dimentica. La memoria di un evento passato è costituita dal ricordo di singoli elementi. La ricerca dimostra che quando cerchiamo di ricordare un evento, i processi di richiamo dei singoli elementi sono in competizione tra loro. E il richiamo del ricordo di un aspetto attiva un meccanismo di controllo che sopprime tutti gli altri, che vengono così dimenticati.”

I tifosi del Napoli hanno eretto un tempio e hanno custodito nel proprio sancta sanctorum il racconto degli anni nei quali correvano sui loro campi squadre invincibili, si intonavano inesauribili cori di festa a salutare le vittorie inesauribili, non si contavano le innumerevoli rivincite e gli stadi stracolmi a sostenere senza alcuna condizione. Ma quegli anni furono sette, e gli scudetti solo due.

Fin quando poi un tristanzuolo Bruno Longhi, in un asettico commento tra i più anti-epici che si ricordino, mette nero su bianco una grigia cronaca: hanno fischiato, non c’è stata nessuna festa.
Raniero Virgilio

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