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Il Bayern è di un altro pianeta, ma i sette gol sono figli anche della romanizzazione di Garcia

Il Bayern è di un altro pianeta, ma i sette gol sono figli anche della romanizzazione di Garcia

“È stata sbagliata partita, fin dall’inizio, questo è certo. Ma la differenza tra le squadre è stata imbarazzante. Così la vera scusa diventa che è stato tutto così orribile da non poter essere vero. La giustificazione dei folli. D’altra parte, se avesse senso il risultato, di cosa avremmo realmente discusso fino a ora? E, soprattutto, cosa sarebbe il nostro calcio?”.

Così Mario Sconcerti, sul Corriere della sera, chiude il suo commento al 7-1 rifilato ieri sera dal Bayern alla Roma. È la via più breve, il giudizio più scontato, ma anche un’analisi inevitabile. Al di là dell’angolo di visuale – io, con tutte le migliori intenzioni di essere sportivo, confesso di essermi divertito molto – il risultato ha impresso l’ennesimo marchio sulla condizione del nostro calcio. Tra quella che finora sembra essere la migliore squadra italiana – o quantomeno quella che ha offerto la miglior qualità di gioco – e quella che è la migliore squadra tedesca (e tra le prime quattro in Europa) ci sono almeno sei gol di differenza. Almeno, perché la sensazione è che potesse terminare anche 15-1.

Finirò con l’essere contraddittorio ma a questa conclusione che sembra insindacabile opporrò qualche annotazione critica. Il Bayern ha dimostrato negli ultimi anni di essere fuori della nostra portata. Ha battuto il Napoli tre anni fa (al San Paolo a dire la verità pareggiammo, anche grazie a un pizzico di fortuna); ha eliminato la Juventus due anni fa senza affanni e ieri sera ha travolto la Roma. Bisogna tornare al febbraio 2010, ottavi di finale di Champions, per trovare un Bayern in difficoltà con un’italiana, la Fiorentina di Prandelli. All’andata ci pensò un arbitraggio sciagurato, al ritorno il solito Robben.

Insomma, il nostro è un calcio che non va in finale di Champions (e non la vince) dal 2010. È un calcio che nelle ultime quattro edizioni non è mai andato oltre un quarto di finale di Champions. Il massimo risultato raggiunto è stata la semifinale della Juventus lo scorso anno in Europa League. Agli ultimi due Mondiali siamo stati eliminati al primo turno.

Lo abbiamo già fatto questo discorso. Noi come altri. Tante altre volte. E ovviamente nulla è cambiato. Anche questa sconfitta sarà dimenticata il prossimo week-end. Torneremo alle nostre piccolezze, al nostro pallone di corte vedute, alle nostre infinite polemiche arbitrali, al nostro calcio intriso di contrapposizione.

Insomma, sappiamo perché il calcio italiano è ridotto così e sappiamo anche perché non cambierà (anche se poi, come riportato ieri, dobbiamo riconoscere che è il campionato i cui diritti tv per l’estero sono i più cari dopo la Premier). È difficile intraprendere la strada del cambiamento. Ci sono abitudini, comodità, vizi cui ormai non facciamo più caso. Ma – ed eccoci al punto – chi viene da fuori sì.

Ecco, un appunto da fare su ieri sera ce l’ho. E non è relativo soltanto a ieri sera. La Roma ha commesso lo stesso peccato che le costò caro a Manchester contro lo United di Ferguson e Cristiano Ronaldo: il peccato di romanità, l’azzardo di giocarsela ad armi pari, di credersi forte quanto loro. Roma è così. Ti seduce, ti inebria, ti travolge. Altrimenti, calcisticamente, non avrebbe perso tutto quello che ha perso. Sono stati uomini insensibili a qualsiasi fattore esterno a vincere: Liedholm e Capello. E non è un caso. In un ambiente che ha avuto squadre fortissime, che ha perso almeno tre scudetti alle ultime giornate.

La progressiva romanizzazione di Garcia è, a mio avviso, uno dei motivi della débacle di ieri sera. Era arrivato con la battuta calcistica più bella dai tempi dell’Avvocato (“abbiamo rimesso la chiesa al centro del villaggio”) e nel giro di un anno è finito a definirsi il capobranco, a farsi i selfie con lo sfondo del Colosseo, a sviolinare al primo rigore dubbio che gli è stato concesso contro. È partito francese, è arrivato italiano.

Qualcuno ci ha criticati per aver messo in evidenza la virata della squadra dopo le parole di Pallotta all’indomani di Juventus-Roma. Il presidente – americano – ha provato a trasmettere una cultura diversa, a offrire una diversa chiave di lettura di quell’incontro e del modo di vivere il calcio. Totti e De Sanctis hanno rimesso la chiesa al centro del bar sport. E Garcia li ha seguiti senza esitare. Avrà fatto per bene, per carità. Così ha tenuto saldo lo spogliatoio. Ma nulla è cambiato.

Ci serve un altro modo di intendere il calcio e lo sport. Di questo abbiamo disperatamente bisogno. A questo possono e debbono servire gli allenatori e i presidenti stranieri. Sennò, alla prima occasione in cui ci sentiremo pronti per il grande salto, ci risveglieremo come dopo un grande paliatone. Magari – per chiudere in chiave positiva – si può ripartire dalle dichiarazioni post-partita del tecnico francese. Un buon punto di partenza.
Massimiliano Gallo

p.s. sì, lo so che il Napoli sta nettamente più inguaiato della Roma ma non per questo siamo condannati a scrivere un epicedio al giorno. 

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