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L’entertainment ha distrutto la boxe, la Superlega ci porterà alla sfida Messi-LeBron

POSTA NAPOLISTA – Don King è arrivato prima di Agnelli e Florentino. E si è finiti alla sfida tra Mayweather Jr e il campione MMA McGregor. Show, non più sport

L’entertainment ha distrutto la boxe, la Superlega ci porterà alla sfida Messi-LeBron

Premessa

Una breve premessa, a commento dell’analogia suggerita dall’articolo di Massimiliano Gallo su Il Napolista (https://www.ilnapolista.it/2021/04/loperazione-superlega-rischia-di-somigliare-al-golpe-in-russia-nel-91-che-fini-in-farsa/). Il golpe/colpo di coda della nomenclatura sovietica nel disperato tentativo di arginare il riformismo di Gorbaciov incarna la migliore dimostrazione, proprio perché involontaria, del collasso irreversibile dell’Urss, che nel 1991 era giunta al punto di essere tanto irriformabile quanto ir-restaurabile (mi si conceda il neologismo). D’altra parte, quell’evento sospeso fra tragico e farsesco segna anche l’ascesa di Boris Eltsin – il quale riesce ad accreditarsi come salvatore della patria – e con ciò, soprattutto, pone le premesse per la neo-Russia neo-zarista di Vladimir Putin. La crescente inadeguatezza dimostrata da Eltsin al cospetto del ruolo affidatogli dalla storia, darà la stura alla privatizzazione del rinato stato russo per mano dei cosiddetti “oligarchi”, per arginare i quali verrà tirato fuori dal cilindro un coniglio griffato KGB. Se possibile, un rimedio peggiore del male (per conferma chiedere, finché è possibile, ad Aleksej Naval’nyj).

Questa premessa è l’occasione, il pretesto per consigliare ai lettori la visione della lunga intervista di Werner Herzog a un Gorbaciov quasi novantenne, e invero alquanto provato (Herzog incontra Gorbaciov, 2018), ma soprattutto la lettura di Limonov (2011) di Emanuel Carrère: una mirabile full immersion, senza rete e senza paracadute, nelle contraddizioni della Russia contemporanea viste dalla prospettiva di una figura (quella dello scrittore Ėduard Limonov) che quelle contraddizioni le ha incarnate e fagocitate. Letteralmente. Tutte.

Chiusa la premessa, vengo al punto di questo intervento. Da quando, due giorni fa, ho appreso la notizia della nascita (poi abortita) della superleague, il parallelo che mi è venuto in mente (nel tentativo di immaginare il modello e/o il possibile esito di una tale iniziativa) non è stato tanto con la Nba, quindi con il basket, quanto con il pugilato professionistico. Ho pensato a ciò che è stato perpetrato a danno della “nobile arte” da una quarantina d’anni a questa parte, vale a dire allorché è stato deciso una volta per tutte che il pugilato fosse (dovesse essere) uno “spettacolo”. Per meglio dire: una forma di entertainment. E tale l’hanno fatto diventare, a forza, nella forma di un circo/cabaret. Finché ne sapevo qualcosa, finché riuscivo ancora ad interessarmene, le sigle (le federazioni) erano proliferate a 5, mentre da internet apprendo adesso che attualmente le “principali federazioni a livello mondiale” sono 7: WBC, WBA, IBF, WBO, WBU, IBO, IBA. Del pari sono proliferate le categorie di peso. Che dovrebbero ammontare a 17. Facendo un rapido calcolo, il numero di campioni del mondo nella boxe attuale dovrebbe aggirarsi intorno a 120.

Un tale cambio di paradigma ha una data precisa: il 30 ottobre 1974, giorno in cui a Kinshasa, capitale dell’allora Zaire (oggi Congo), sotto il benevolo patrocinio del dittatore Mobutu andava in scena – è proprio il caso di dirlo – The Rumble in the Jungle: l’incontro epocale tra Muhammad Ali e George Foreman. Questo spartiacque nella storia dell’intrattenimento sportivo fu il primo main event organizzato da Don King, destinato a diventare il manager per antonomasia. Il lettore mi perdonerà se indugio anche qui in un piccolo consiglio: la visione del magnifico documentario di Leon Gast When We Were Kings (1996).

Cosa sia successo da allora, è faccenda nota. Nel pugilato i soldi sono girati eccome, ma la credibilità di questo sport e l’interesse degli appassionati sono di pari grado decresciuti (e non felicemente). Qualche settimana fa in molti hanno pianto la scomparsa prematura di Marvin Hagler, “The Marvelous”, celebrandone le doti di sportivo, di fighter nel senso più pieno e più nobile del termine. A emblema di una carriera leggendaria, molti hanno evocato il suo match con Thomas Hearns, tenutosi il 15 aprile 1985 e non a caso soprannominato “The War”. Sebbene sia durato soltanto tre round, quell’incontro resta una rappresentazione di rara, spietata fedeltà di tutto quello che può essere il pugilato, il quale nella sua massima espressione in quanto sport raggiunge i vertici del dramma. 

Il pugile più iconico degli ultimi anni è senza dubbio Floyd Mayweather Jr., soprannominato Pretty Boy Money. Premesso che Mayweather è un grande atleta (si è ritirato da pluricampione del mondo in diverse categorie e da imbattuto dopo 55 incontri), di lui si ricorda soprattutto il piglio per gli affari – da cui il soprannome – e un incontenibile gusto per la crassa ostentazione della propria enorme ricchezza. L’incontro mediaticamente più noto della sua carriera è stato quello “ufficioso” contro il campione di MMA Conor McGregor, celebrato il 26 agosto 2017 (due anni dopo il ritiro ufficiale di Mayweather) e ribattezzato The Money Fight vista la borsa esorbitante, circa 400 milioni di dollari, che i due avversari si sono divisi. Le icone di due sport per certi aspetti simili, e tuttavia diversi, che si affrontano affinché il pubblico possa finalmente scoprire “chi è il più forte”. Un po’ come Superman contro Batman o Goldrake contro Mazinga, se preferite. Puro spettacolo, puro intrattenimento. Chissà, tra non molto potremmo goderci uno scontro (rigorosamente on demand e in pay per view) tra Lionel Messi e Lebron James, tra Roger Federer e Michael Phelps o tra Tom Brady e Usain Bolt (personalmente, preferirei David Rudisha). Perché se c’è domanda (se c’è mercato), se il pubblico (pagante) lo vuole, il modo si trova sempre. Si deve trovare.

Fuor di metafora pugilistica, vorrei dire questo. Oggi la sedicente aristocrazia del calcio – autoproclamatasi tale, per di più sulla base di un blasone che è di mero censo, cioè di fatturato – dà vita alla propria lega. Istituisce un privé esclusivo nel quale, finalmente, non sarà più consentito l’accesso alla molesta plebe calcistica. A quest’ultima verrà concesso lo status ufficiale di questuante, le spetteranno gli avanzi di quei banchetti luculliani, tutt’al più con la speranza, un giorno (a patto che si “comporti bene”) di poter essere magnanimamente invitata a occupare, una volta tanto, uno scranno di quel tavolo dei sogni. Sull’esempio di quanto è accaduto nella boxe, domani qualcun altro potrebbe farsi la sua lega alternativa, anche solo per il gusto di potersi decretare “campione d’Europa” o “del mondo”, nella sua propria Europa e nel suo proprio mondo. E poi, dopodomani, qualcun altro potrebbe fare lo stesso e così via. Andrea Agnelli potrebbe stare al calcio (alla storia del calcio) come Don King sta alla boxe (alla storia della boxe). Entrambi affossatori dei rispettivi sport.

L’evoluzione, l’involuzione, della boxe qualcosa dovrebbe dirci. Dal simbolo Hagler (the fighter) al simbolo Mayweather (the money maker); dall’incontro Hagler-Hearns all’incontro Mayweather-McGregor si può misurare tutta la distanza che c’è tra sport e spettacolo. A noi la scelta, a noi il divertimento.

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