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In tv è sparito il tifoso del Napoli che esulta coi babà. La nuova regia di Bonnici nasconde il folklore e corona il sogno di Massimo Troisi

In tv è sparito il tifoso del Napoli che esulta coi babà. La nuova regia di Bonnici nasconde il folklore e corona il sogno di Massimo Troisi

Va bene chiedersi dove sia finito il Napoli brillante di un mese e mezzo fa. Va bene pure chiedersi dove siano i gol degli attaccanti, escluso Higuain. Chiediamoci però anche dove sia adesso quel signore che nel campionato scorso esultava in tribuna al San Paolo in diretta tv. Sicuramente lo ricordate. Viso rotondo, paffuto, un naso non banale. In genere con un giubbotto azzurro, un bomber si sarebbe detto una volta. È dai tempi di Cavani – a proposito di bomber – che si faceva trovare pronto in favore di telecamera con la guantiera di paste in mano, anzi, non di paste si trattava, ma di babà più precisamente: metafora di ciò che il Napoli aveva consegnato agli avversari. L’alternativa al babà, nella gastronomia calcistica, sarebbero le polpette (confronta la voce popolare: “Vi abbiamo dato tre polpette”). Ma forse allo stadio le polpette sono più difficili da introdurre, non lo so, non ci ho mai provato. Fatto sta che quell’uomo, quel viso, i suoi babà: sono spariti. Non perché il Napoli non segni più, nient’affatto. Neppure perché siano scomparse le scene dagli spalti. Quelle ci sono ancora. Manca proprio lui: o non va più allo stadio oppure non lo inquadrano.

Ora le telecamere, fateci caso, si posano su un gruppo di persone dall’aspetto discreto, essenziale, neutro. Stavo per dire anonimo. Inquadratura stretta, dentro lo schermo ne entreranno una quindicina, la prossima volta li conto. Uomini che se ne stanno imbacuccati dentro soprabiti né belli né brutti, qualcuno porta la sciarpa azzurra stretta intorno al collo, non tutti. Qua e là si scorge finanche una donna, ogni tanto pure la testa di un bambino. Una volta ce n’era uno biondo con gli occhi chiari, magro, slanciato, un normanno in miniatura. Gente che compostamente si congratula per un gol segnato, gente controllata, contegnosa, nemmeno un babà, uno sciù, una testa di moro. È il nuovo stile di riprese del campionato. Quelli che parlano bene e sanno guardare la società in tempo reale, direbbero che è la nuova narrazione del calcio. È accaduto che le immagini e la regia delle partite siano state affidate alla gestione esclusiva di società che rispondono direttamente alla Lega Calcio. Se prima la scelta di cosa mostrare, e quando, e quante volte, era delegata ai broadcaster (Sky innanzitutto), adesso l’operazione è totalmente in carico al provider. La Lega mette in scena lo spettacolo, la Lega lo produce, la Lega decide cosa mostrarci.

Tralasciamo in questo momento i risvolti legali delle vicende collegate all’affare (tutta la questione Infront con annessi e connessi) e concentriamoci sull’immagine. Sono spariti dai nostri schermi gli striscioni polemici, le contestazioni, i cori offensivi. Eccessi? Non ce ne sono. Non sono cambiati i nostri stadi, cambiata è la maniera di mostrarceli. La serie A viene raccontata in un modo nuovo. Persino in campo sembra che ci siano meno proteste, meno capannelli intorno agli arbitri, più lealtà, avversari che si stringono la mano, e se ci scappa un gesto da biasimare lo vediamo una volta, al massimo due, e poi basta. Regia, stacco sul pubblico, un bimbo che batte le mani e sorride alla mamma. Ho letto che le tv si sono lamentate. Sostengono che ci sia una sorta di anestesia intorno allo spettacolo. Il sospetto, a dirla tutta, è che la Lega stia rendendo il suo prodotto più ovattato per poterlo vendere meglio: magari all’estero. In verità già Sky negli anni scorsi aveva fatto la scelta di non mostrare più gli scontri fra tifosi, di non riferire più in telecronaca dei cori sul Vesuvio, di limitare il suo racconto (“la narrazione”) alle cose del campo. Poi è spuntato il timore dei club. Il timore che la gestione delle immagini potesse incidere e avere un peso sullo svolgimento del campionato. Galliani accusò la Juve, che gestiva in proprio le riprese dentro lo stadio (come il Napoli al San Paolo), di aver in sostanza manipolato le immagini su un fuorigioco, tracciando male una linea: se ne occupò anche Andrea Iovene su Napolista. Questo episodio ha portato alla attuale regia centralizzata delle immagini, il responsabile è Popi Bonnici: lavorava negli show di Canale 5. Ma le polemiche non sono finite. Le polemiche hanno un risvolto che riguarda il campo. Per esempio, se io fossi un tifoso della Roma mi chiederei com’è possibile che non ci sia una sola immagine chiara del cross di Rudiger al San Paolo. Se io fossi un tifoso della Roma, consapevole della narrazione del nuovo corso, sicuramente mi lascerei andare alla tesi del complotto (“le immagini ci sono, ma non ce le mostrano perché la palla era buona e la Lega non vuole polemiche”). Se io fossi un tifoso della Roma e dicessi queste cose, di certo troverei poi un articolo sul Napolista che mi ricorda il legame tra Beretta, presidente di Lega, e l’Unicredit. Per questo ora a me interessa di più l’aspetto filosofico della vicenda. 

Come ci insegna Gilles Deleuze, attraverso un’inquadratura viene ritagliato dallo spazio aperto del mondo un sistema chiuso, fatto di personaggi e oggetti in relazione tra loro. Poi c’è il montaggio, la selezione delle sequenze, l’esposizione del tempo e del suo fluire. Ma c’è montaggio e montaggio. La scuola americana, per esempio, lo concepisce secondo un’idea di rapporti binari, un’alternanza fra immagini di parti avverse, il mondo dei poveri versus quello dei ricchi, i buoni e i cattivi. L’unità del mondo resa attraverso i conflitti. La scuola russa, al contrario, lavorava per comunicare l’idea che esistesse una meta unitaria da raggiungere, realizzando l’opposizione dialettica attraverso il pathos (la carrozzina della corazzata Potemkin). Restiamo al calcio. Qualunque sia la natura di montaggio scelta, la macchina da presa (nel nostro caso la telecamera) è una coscienza che giudica, definisce la sua visione del mondo, isola una sezione del flusso. Ogni immagine esprime un concetto. Deleuze giunse a dividere il repertorio per tipi e categorie, in base alle convenzioni simboliche. Quelle che sembrano fare al caso nostro sono quelle chiamate immagini-affezione. Il primo piano lo è sempre. Ha il compito di astrarre l’immagine dal contesto, dallo spazio e dal tempo, per farne un’icona. Il primo piano separa ciò che vuole esprimere. Fa riferimento solo a se stesso. È singolare ma impersonale. Esprime potenza senza profondità. Il caso di scuola è il film di Dreyer su Giovanna d’Arco. Ci sono così tanti primi piani sul volto della santa che la passione si astrae dal processo. 

Popi Bonnici, ci piaccia o meno, incredibile o no che sia, fa un’operazione del genere negli stadi. Riprende gli spalti nella loro singolarità: quello della Juve, quello del Milan, quello del Napoli. Ma li rende impersonali. Tutti uguali. Se non ci fossero le sciarpe al collo a distinguere le fazioni, sembrerebbero tutti tifosi della stessa squadra. C’è la potenza senza la profondità. A pensarci bene è la sola occasione in cui Napoli viene raccontata senza un accento speciale, né compiacimento né scandalo, senza alcuna diversità. È una città come tutte le altre persino nei suoi atteggiamenti più passionali, più luogo-comunemente napoletani, allo stadio, finalmente una città normale. Si realizza così il sogno cinematografico e non del Massimo Troisi di “No grazie il caffè mi rende nervoso”: la nuova Napoli a cui si opponeva quel maniaco di Funiculì Funiculà, a cavalcioni del ciuccio con la maglia di Rudy Krol. Si realizza così l’incubo di Pier Paolo Pasolini, spaventato dalla prospettiva che il progresso avrebbe cancellato Gennariello, e con lui “l’ultima metropoli plebea, l’ultimo grande villaggio”. Verrebbe allora da candidarlo a sindaco, questo Popi Bonnici, se non fosse, la sua, comunque un’operazione di occultamento parziale della realtà. Ha la sua tesi da sostenere e da diffondere. Il calcio del decoro. Nella sua tesi non c’è spazio per i babà di quell’uomo paffuto. Ma il folklore non è sparito, stavolta hanno solo smesso di mostrarlo. Però siccome il caso è sempre in agguato, Popi Bonnici mette le sue telecamere al 93esimo di Napoli-Roma su un uomo vestito come tanti, come fosse uno di Rovigo, e quello in diretta gli bestemmia la Madonna.
Elena Amoruso

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