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Mago Forest: «Una volta firmai un autografo su una scatola di supposte, mi riconobbero fuori dalla farmacia» 

Al CorSera: «La Gialappa’s? Un idillio. Il processo creativo di Mai dire gol era bellissimo: si lavorava tutti i giorni per fare un’ora e mezzo di programma»

Mago Forest: «Una volta firmai un autografo su una scatola di supposte, mi riconobbero fuori dalla farmacia» 

Sul Corriere della Sera un’intervista a Michele Foresta, in arte Mago Forest. Condivide i ricordi di quando era bambino e la madre provava qualsiasi escamotage per farlo mangiare, visto che era mingherlino.

«Mia madre mi tagliava il pane a cubetti con sopra un pezzettino di acciuga: erano i soldatini; se li finivo tutti potevo mangiare il re, un pezzo di pane ancora più grosso con l’acciuga intera in testa. Erano i suoi trucchi… Ero mingherlino. Ha presente la regola delle 100 uova, che per far crescere un bambino bisogna fargli mangiare un uovo crudo al giorno per cento giorni di fila? Non potevo andare a giocare fuori finché non bevevo il mio ovetto».

Che famiglia era la sua?

«Modestissima, ma non ci mancava nulla. Soprattutto, non il senso dell’umorismo. Mio padre Filippo faceva il carpentiere. Oggi ha 94 anni. Mia madre Pina era casalinga: lei ne ha 87. Si vogliono molto bene. Di loro si occupa soprattutto mia sorella Luisa».

Racconta che crea da solo i marchingegni che usa per i suoi numeri comici.

«Sì, ho grande manualità, da ragazzo facevo l’imbianchino per aiutare in famiglia. E mi considero un dadaista: mi piace assemblare oggetti che non dialogano tra di loro. Sono fiero di un tagliaerba che mi lasciava a brandelli i vestiti e mi depilava il petto con la forma della carta scelta dalla cavia: da poco ho mandato una foto a Piero Pelù, per stupirlo. Sono affezionato a una catapulta per lanciare le carte. E a una cabina per il teletrasporto, in cui indossavo un abito come la carta da parati interna, per mimetizzarmi».

Per la sua comicità si è ispirato a “Oggi le comiche”.

«Oggi le comiche, che trasmettevano una volta alla settimana, il sabato, prima del telegiornale dell’una e mezzo. Ma siccome a quell’ora ero a scuola, mi inventano delle scuse per uscire prima. E lì vedevo Harold Lloyd, ha presente?, il comico che si aggrappava alle lancette di un grattacielo. Sapevo che volevo fare il mago. Poi guardavo Pappagone, di Peppino De Filippo, i fratelli Santonastaso, Cochi e Renato…».

Nel 2001 iniziò il lungo sodalizio con la Gialappa’s, per tante edizioni di «Mai dire».

«Ho iniziato con Ellen Hidding a Mai dire Maik. Sicuramente è stata la più bella esperienza professionale. Di Marco Santin sono il testimone di nozze, Giorgio Gherarducci l’ho sposato io in Comune con la fascia del sindaco Sala. Il processo creativo di Mai dire gol era bellissimo: si lavorava tutti i giorni per fare un’ora e mezzo di programma. Oggi sarebbe impensabile, ma la comicità va preparata, non è improvvisazione».

L’autografo più strano dove lo ha firmato?

«Su una scatola di supposte: una signora mi aveva riconosciuto uscendo dalla farmacia».

Il momento più emozionante della carriera?

«Lavorare con Renzo Arbore a Indietro tutta! Lo ascoltavo in Alto gradimento quando aiutavo mio padre in campagna e appendevo la radiolina a un albero per prendere meglio il segnale».

La battuta che non fu capita?

«Quando dissi che ero credente all’8 per mille. Un prete di Nicosia non voleva più farmi cresimare mio nipote. Mediò don Silvio Mantelli, il salesiano mago che fu maestro di Brachetti. È stato lui a celebrare il mio matrimonio».

Il pubblico più difficile?

«I bambini: è un altro lavoro. Ma una volta andai in Tanzania con ActionAid per il progetto “Se fossi nato in…”. Vederli ridere quando facevo comparire i pesciolini o mi facevo uscire venti metri di stringa dalla bocca fu emozionante».

 

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