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C’era una volta Pochettino maestro di calcio, ora gestisce il Paris Globetrotters

La vera sfida del team-builder del Tottenham ora è dire a Messi, Neymar e Ramos cosa fare in campo. Ed evitare che si mettano a ridere

C’era una volta Pochettino maestro di calcio, ora gestisce il Paris Globetrotters
Londra (Inghilterra) 01/10/2019 - Champions League / Tottenham-Bayern Monaco / foto Imago/Image Sport nella foto: Mauricio Pochettino

Mauricio Pochettino ha proprio la faccia che serviva per fare il maestro di calcio. Di quello che si insozza le mani di gesso e cancelletto fino a quando la sua squadra non manda a memoria schemi e audacia per finire in una finale di Champions più o meno dal nulla. E da lì sottrarsi a quel tormentone populista che è “coi campioni son bravi tutti”. L’espressione pacioccona d’un villeggiante ferragostano che indossa pure oggi quando deve raccontare ai giornalisti la sua nuova “sfida” (la chiama proprio così, sfida):  “Riuscire a far risaltare queste stelle a livello di squadra“. “Con disciplina e organizzazione”, aggiunge col mezzo sorriso di chi si ascolta trattenendosi dallo sbellicarsi in piena conferenza stampa. Ha pur sempre origini sabaude, Mauricio Roberto Pochettino Trossero: la compostezza è un argine all’esaltazione, che gli vale la panchina più invidiata della storia del calcio: il Paris Globetrotters.

Ora, Pochettino in seconda battuta ammette: “Sentiamo la responsabilità ma ci stiamo anche godendo la situazione”. Dove l’accento cade sul verbo godere. A scanso di equivoci la rosa che lui deve – in teoria – trasformare in una squadra con degli schemi coerenti e una intesa almeno minima, dotata d’una parvenza di equilibrio, è opulenta abbastanza per fregarsene. Gli comunichi, con un certo imbarazzo, gli undici che andranno in campo a discapito degli altri e poi devi solo corrucciare bene la fronte in favore di telecamere, acciocché anche in tv avvertano la fatica di vederli giocare assieme, Messi Neymar e Mbappé. Che non si dica poi che regnava troppo disordine lì davanti. A lui che lo stipendiano a fare?

Pochettino è una rappresentazione per metafora della classe operaia in paradiso per scambio. Anche per quella faccia di cui sopra, e per una gavetta che lo doveva traghettare tra i grandi esemplari della nouvelle vague tattica e che invece un po’ per caso l’ha piazzato al comando d’una truppa di superstar pressoché ingovernabili.

A Pochettino, facendosi forza del pur invidiabile curriculum vitae, tocca entrare in quello spogliatoio e spiegare a Sergio Ramos, a Messi, a Di Maria, a Neymar, cosa fare in campo. Quelli – immaginiamo – lo guarderanno assorti, diranno “sì mister” e poi correranno a fare autogestione per i successivi 90 minuti. Non c’è scampo che non finisca così, anche nella versione ottimistica d’una vicenda che potrebbe trasformarsi in un pasticcio di superuomini troppo super per coesistere pacificamente.

Quando prese la panchina del PSG, in Inghilterra ne scrissero con apprensione: poverino, non sa che in che guaio s’è cacciato. Jonathan Liew sul Guardian descrisse la nuova avventura come una specie di incubo in potenza. Che ci fa uno così nell’eden dell’individualismo, nella terra di Neymar?

In sostituzione peraltro di Thomas Tuchel, il quale poco prima del Natale che gli risulterà fatale, aveva detto alla tv tedesca di sentirsi “più un politico o un ministro dello sport” che un allenatore di calcio. “In un club come il PSG, ci sono molte influenze”, disse. E infatti lo licenziarono.

Pochettino, secondo il Guardian, è finito in “un mondo di agende e verità in competizione, dove tutto è calcio e tutto è qualcos’altro. Un marchio di lusso. La copertura di un governo autocratico. Un veicolo di star decadenti. Una fabbrica di sogni magici. Costruito sul duro lavoro e sullo slancio parigino e sulle emissioni di CO2 e sulla schiavitù moderna. Dove tutto è vero. Ma niente è reale“.

Dove abbia preso finora la forza per sintetizzare quest’orgia d’ossimori, forse anche per intimamente crederci, è un mistero che aumenta a dismisura la sua reputazione. E che ne riabilita la pregressa nomea di team-builder, portandolo nel futuro della sua professione: il gestore d’eventi.

Un uomo che ha portato il Tottenham a una finale di Champions League in cinque anni con una spesa netta al mercato di circa 30 milioni di sterline. I paragoni sulle unità di misura sono a questo punto irrilevanti. Pochettino, prima che la ricchezza desse una sterzata alla sua carriera, era quello che “sposta gli orizzonti, alza le aspettative, ridefinisce i confini del possibile” (cit. sempre Liew). Ma niente di tutto questo ha un senso al PSG. Non hanno bisogno di aumentare le aspettative, pena la follia. E non vogliono intraprendere un viaggio olistico di crescita, rinnovamento e autorealizzazione. Se ne fottono. Regna l’individualismo agonistico. Va solo capziosamente alimentato.

O altrimenti inverti i fattori, trovando magari la soluzione dove non te l’aspettavi. Come ha fatto per converso proprio Tuchel. Che ha lasciato il Ministero del jet set a Parigi ed è andato a fare l’allenatore a Londra: pochi mesi e la Champions, lui, l’ha vinta.

Il punto d’incontro tra queste due traiettorie professionali è più o meno lo stesso, solo lievemente sfalsato. A Pochettino comprano la qualunque convinti di arrivare a quella Champions con la forza, la prepotenza. Tuchel funziona al contrario: ha vinto con Jorginho capocannoniere di squadra, guadagnandosi il diritto di pretendere ciò che gli mancava per continuare a farlo: il bomber, Lukaku altro che Timo Werner.

Manca il finale, a questa storia non lineare. La morale, quella, è scritta nel sogghigno di Pochettino: la sfida di trasformare il PSG in una squadra è una copertura, il vero trucco è restare credibile.

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