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In Italia non si dimette mai nessuno. Tranne Prandelli

Perseguitato dall’etichetta della “persona perbene”, è la quinta volta che lascia. È un percorso “morale”, anche attraverso il dolore che non ha mai nascosto

«Una dimissione ti lascia un senso di incompiuto. Qualcosa dentro ti rimane. Per questo ora ho promesso e ripromesso ai miei figli che non mi dimetterò più».

La promessa, oggi sappiamo non mantenuta, è del 2018, e Cesare Prandelli si era già dimesso quattro volte, da allenatore: dalla Nazionale dopo i morsi dell’Uruguay, Mondiale 2014, dal Valencia, dal Lecce e dal Verona. Ora lascia, sua sponte, la Fiorentina.

Prandelli si muove scomodo in un mondo che invoca le dimissioni di chiunque al minimo errore, per racimolare sfilate di esoneri forzosi, stiracchiati, sempre rispettosi del vincolo contrattuale. Prandelli è uno che se ne va, per davvero. Pratica le dimissioni morali, che non sono mai una resa. Non solo, almeno. Le dimissioni di Prandelli sono un sacco di cose, e quasi tutte hanno a che fare con la dignità.

Ed è infatti l’uomo Prandelli, più che il tecnico, a inchiodare le prime pagine, anche adesso che si libera (non è un verbo scelto a caso) della Fiorentina. Che è pur sempre la Fiorentina, che in affanno lotta per restare ai margini della zona retrocessione: non fosse suo questo addio attirerebbe ben altra luce. La notizia è, appunto, lui. Il suo modo di piantare in asso le parvenze e aprirsi, a dispetto del macello di giudizi gratuiti che ne deriverà. Non per altro la sua etichetta – immaginiamo fin troppo appiccicosa – è quella dell’uomo perbene. Che è un tranello retorico. La sua rettitudine risalta nella definizione in negativo del contesto, come a dire “Prandelli, ah lui sì che è una persona perbene, gli altri invece…”.

Però va così, ogni volta che chiude una tappa della carriera. Perché – a occhio, e per acclamazione – Prandelli è davvero una persona perbene. Trafitta da un malessere, esternato con una lettera pubblica ora, ma già colto dopo la vittoria sul Benevento di qualche settimana fa. Quando s’era presentato ai microfoni e invece di rallegrarsi dei tre punti aveva buttato lì:

«Sono molto stanco. Dentro sono abbastanza vuoto. Sono felicissimo per la società e per i giocatori ma io in questo momento sono molto stanco. Non c’è nessun motivo, sono solo stanco».

Ora che ha dato seguito ulteriore a quelle poche parole di sfogo intimo, fa un po’ impressione tornare sulla sua carriera, a ritroso, e scoprire che sul percorso aveva lasciato un po’ di mollichine. Bastava seguirle. Un percorso dritto verso quest’atto che lui stesso ipotizza “ultimo”.

In una bella intervista a L’Ultimo Uomo raccontava proprio del suo rapporto – quasi naif – con le dimissioni.

«Di questa cosa ricordo di averne discusso molte volte con Franco Ferrari, a Coverciano. Io frequentavo il corso da allenatori e lui era un docente. Un mio grande maestro. Ci fermavamo spesso a parlare la sera. Io gli dicevo che se avessi capito che il mio lavoro non bastava, allora mi sarei dovuto mettere in discussione. Ed eventualmente fare da parte. Lui controbatteva difendendo il punto di vista della categoria e mi diceva Cesare, il contratto è una cosa importante, sacra. In un certo senso aveva ragione, ma io la vedevo così. Se mi fossi sentito impotente non sarei rimasto. Per cosa? Per lo stipendio? Bah. Non è mai stata quella la priorità».

Soffermandosi sull’addio al Lecce:

«Lecce in particolare fu un caso unico. La squadra giocava veramente bene, riceveva complimenti ovunque. Ma purtroppo non raccoglievamo punti. Alla fine del girone d’andata pensai potesse essere colpa mia. Di non essere in grado di fare di più, e diedi le dimissioni. Semeraro mi disse che per lui restavo il suo allenatore e che mi avrebbe telefonato ogni settimana. Fu di parola. Al telefono mi chiedeva se mi fosse riposato, se mi sentissi pronto a tornare. Diceva che aveva pronto un nuovo lungo contratto al doppio dello stipendio. Io lo ringraziavo ogni volta ma ormai la decisione era presa».

Il discorso, qui, si inerpica su un sentiero sterrato: il suo rapporto col dolore. Che è una cosa troppo personale per svilirla parlandone da terzi. Però proprio lui spiegava la ritrosia a resistere oltre le proprie colpe così:

«Ho sempre associato il mio senso della responsabilità all’evento della morte di mio padre. Avevo 15 anni, ed eravamo rimasti io e mia madre con due bambine molto piccole, le mie sorelle. Di colpo ho dovuto crescere e ho dovuto iniziare a pensare anche per altri».

Troppo facile, ora, chiamare in causa la scomparsa nel 2007 della moglie per una lunga malattia, come segno profondo nella sua successiva vita. Prandelli per starle vicino lasciò la panchina della Roma, tre anni prima.

Oggi scrive una dietro l’altra cose così:

«Nella vita di ciascuno, oltre che alle cose belle, si accumulano scorie, veleni che talvolta ti presentano il conto tutto assieme. In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono».

«Sono stato cieco davanti ai primi segnali che qualcosa non andava, qualcosa non era esattamente al suo posto dentro di me. Mai vorrei che il mio disagio fosse percepito e condizionasse le prestazioni della squadra».

«In questi mesi è cresciuta dentro di me un’ombra che ha cambiato anche il mio modo di vedere le cose. Sono consapevole che la mia carriera di allenatore possa finire qui, ma non ho rimpianti e non voglio averne. Probabilmente questo mondo di cui ho fatto parte per tutta la mia vita, non fa più per me e non mi ci riconosco più. Sicuramente sarò cambiato io e il mondo va più veloce di quanto pensassi».

Prandelli non si riconosce più in un mondo che mai si sarebbe potuto riconoscere in lui. La tira fuori quasi come un’ammissione di colpa, una confessione. Che è il modo del tutto originale di trarre conclusioni, quando altri – quasi tutti, per la verità – avrebbero tenuto duro. Per principio o convenienza. Valga a esempio il racconto delle sue dimissioni dalla Nazionale:

«Eravamo soli con Giancarlo Abete (presidente federale anche lui dimissionario, ndr), gli occhi lucidi. Lui viveva un momento delicato anche in ambito extra lavorativo. È una persona di grande spessore umano. Mi disse che intendeva dimettersi immediatamente e gli risposi “Se si dimette lei, mi dimetto anch’io”. Volevo dirottare gli attacchi su di me. Che lasciassero stare giocatori e staff».

Di nuovo: la storia, a leggerla per intero, è sempre la stessa. Prandelli trae conclusioni.

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