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Dario Argento: «Da ragazzo non dormivo con nessuno per timore di essere ucciso nel sonno»

A GQ: «Mi sono sempre piaciuti, gli alberghi. Sono impersonali, non ti appartengono esattamente come tu non appartieni a loro. In uno dei miei preferiti rischiai di suicidarmi»

Dario Argento: «Da ragazzo non dormivo con nessuno per timore di essere ucciso nel sonno»

GQ pubblica una lunga intervista al regista Dario Argento. Racconta il suo rapporto con la paura.

«Della mia infanzia, molto serena, ricordo soprattutto l’incontro con la paura. Mi ha fatto scoprire mondi sconosciuti di cui i miei amici e i miei fratelli non avevano neanche la più lontana idea. Io invece, grazie alla lettura e alla fantasia, li frequentavo con entusiasmo. Scoprivo abissi della mente, derive a cui ancorarmi, racconti dell’orrore, opere liriche e tragedie che in seguito, nel mio lavoro».

Nel suo lavoro si è dimostrata fondamentale anche la sua metà oscura, dice, ovvero la consapevolezza di avere dentro una parte capace di «pensieri orribili e immaginazioni spaventose». Racconta di non avere mai combattuto questa parte di sé.

«L’ho coccolata, abbracciata, accudita. Mi ha fatto compagnia e continua a farmela. Mi fa commettere atti crudeli e bruttissimi, è vero. Ma ci dialogo da sempre e non ho mai avuto la tentazione di mediare. Forse per opportunismo: molti di quei pensieri infatti sono nei miei film».

Racconta le paure che lo hanno accompagnato negli anni.

«Quelle di tutti, credo. Essere aggredito, soffrire fisicamente, incontrare il male. A volte erano paure inconsulte, assolutamente irrazionali. Da ragazzo non dividevo il letto né concedevo l’intimità della notte a nessuno. Temevo che nel sonno, dando le spalle all’amante, potessi essere ucciso».

Nel 1966, mentre collaborava per Paese Sera, fu inviato ad intervistare Alberto Sordi.

«Lui parlava e ogni tanto si ammutoliva fissandomi con insistenza. Al momento del congedo, mentre salutavo, si avvicinò l’aiuto regista: ‘Tanto noi ci rivediamo’, disse. E così mi ritrovai sul set di ‘Scusi, lei è favorevole o contrario?’, nel ruolo di chierichetto».

Da lì prese il volo nel cinema. Spiega cosa è per lui il set.

«Un luogo in cui non mi diverto mai. Non ho mai provato una grande felicità nel realizzare i miei film. Era un lavoro che facevo con metodo e applicazione quasi impiegatizia. Un lavoro che non di rado mi lasciava totalmente svuotato e che affrontavo senza questa specie di falsa euforia che sembra essere il corollario indispensabile per potersi definire regista. Non ho mai creduto nella falsa euforia: facevo il mio storyboard, facevo in modo di rispettare il mio stile, cercavo di sopravvivere».

Per colpa dei suoi film ha sofferto spesso.

«Mi è capitato di soffrire per l’esito di alcuni film e di sentirmi a volte svuotato, spossato, senza la voglia di andare avanti. Ho ottant’anni e per lunghissimi periodi della mia vita ho vissuto in albergo. Mi sono sempre piaciuti, gli alberghi. Sono impersonali, perfetti per concentrarsi, non ti appartengono esattamente come tu non appartieni a loro. In uno dei miei preferiti, l’Hotel Flora, a due passi da via Veneto, nell’inverno del 1976 rischiai di suicidarmi. Stavo preparando Suspiria e le cose sul lavoro andavano alla grande, ma era con me stesso che da qualche tempo le cose non andavano benissimo. Mi era capitato di svegliarmi una notte con il nitido desiderio di lanciarmi dalla finestra e la stessa cosa mi era successa qualche settimana dopo quando mi era addirittura accaduto di immaginare il dopo, il mio corpo che precipitava a terra, lo schianto, il rumore, i titoli dei giornali. Mi ero diretto senza dubbi verso gli scuri, ma i mobili, i tavolini e le suppellettili mi avevano impedito di realizzare il proposito. Mi ero risvegliato la mattina dopo in lacrime, aggrovigliato tra le tende e avevo immediatamente telefonato a un amico medico».

Gli suggerì di mettere tutti i mobili della stanza davanti alla porta-finestra.

«Funzionò. Dovetti combattere ma mi rialzai. Mi tirai su e da allora non ci ho mai più pensato».

Definisce la solitudine una dipendenza. E descrive il rapporto con le altre sue dipendenze.

«L’hashish mi ha fatto compagnia per moltissimo tempo. Non mi ricordo neanche chi mi iniziò al vizio, ma se avessi potuto avrei continuato. Ho dovuto smettere, con grande dolore, perché bronchite e tosse non mi davano tregua. Per un breve periodo feci uso anche di cocaina, ma a differenza delle canne, non solo non era una dipendenza forte, ma neanche rimpianta. La cocaina mi dava fastidio. Mi faceva star male. Non mi rilassava. Abbandonarla fu naturale».

Fare cinema gli dà energia. Non ha intenzione di smettere.

«Finché in una sala ci sarà qualcuno da impaurire potrò considerarmi una persona contenta».

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