E se noi napolisti ammettessimo che, in fondo, Rafalution non la trionferà mai? È bello portare avanti le battaglie, è entusiasmante, si fa gruppo, ma siamo animali sociali, non riusciamo a farne a meno. E leggiamo Internet, i giornali, i social, ascoltiamo i tifosi allo stadio, nei bar, nelle case. Ammettiamolo, non c’è speranza. A meno che Rafa non vinca. Ma non sarebbe il trionfo della Rafalution, sarebbe la vittoria. Che è un’altra cosa. Darebbe luogo a una gioia effimera, che poi gioia non è in realtà. Bensì la riscossione di un credito. Perché così viene considerata la vittoria da parte di tanti tifosi del Napoli. È un’attività di factoring, è un recupero crediti, un dovere da esigere.
La Rafalution sarebbe altro. Benitez dovrebbe riuscire a introiettare nell’animo del tifoso napoletano una mentalità prospettica, la gioia dei miglioramenti progressivi, l’ebrezza di allestire una squadra che possa essere competitiva in un arco di tempo che potremmo almeno definire medio. Di conseguenza, noi tifosi dovremmo comprendere che un processo di metamorfosi così profondo richiede tempo, sacrificio, applicazione, conoscenza del gruppo.
Vaste programme, disse quel tale. Benitez predica un calcio che probabilmente qui non può mai attecchire. I carciofi a Mimongo stavolta non cresceranno. Perché non ce la possiamo fare. C’è troppo vento. Troppa impazienza. E, soprattutto, non c’è gioia nel processo di crescita. La vittoria è considerata un atto dovuto, troppo a lungo agognato e ora quindi considerato alla stregua di un risarcimento.
Chi conosce Rafa, giura che lui tutte queste cose le sa. Ma da un orecchio gli entrano e dall’altro gli escono. Lui ha grande rispetto per il pubblico, però guarda soprattutto al suo lavoro. Ama il suo lavoro. Scambierebbe volentieri un centrocampista dai piedi buoni per un centro di allenamento degno di questo nome, dove poter avere quotidianamente sotto osservazione i giovani della Primavera e magari anche gli Allievi. È la passione di chi ama il proprio lavoro, di chi ama lo sport. È la passione di chi ama insegnare. Passione che, per carità, non esclude la possibilità di vincere. La contempla, eccome. Ma all’interno di un percorso di crescita complessivo.
Anni fa venne pubblicato un libro su Mourinho e il Chelsea. Un’opera interessante per comprendere l’amore che lo Special One ha per quella società. Perché è stato lui a trasformare il Chelsea in un club programmato per vincere. È lui che ha portato al Chelsea l’organizzazione, la programmazione. È merito suo se il Chelsea – senza di lui – ha disputato due finali di Champions, vincendone una.
È quello che vorrebbe fare Benitez con il Napoli. Perché, diciamoci la verità, se un allenatore desidera alzare un trofeo non è alla nostra città che pensa. C’è voluto il più forte giocatore di tutti i tempi per vincere qualcosa. E da solo nemmeno bastò. Rafa è venuto qui per insegnare calcio, per trasmettere una mentalità. È questo aspetto che lo colpì nell’incontro estivo con De Laurentiis. È uno stanziale. Probabilmente col sogno, legittimo, di sedersi un giorno sulla panchina del suo Real.
Forse non aveva fatto i conti con un ambiente che invece si considera in debito con la suerte. Che ritiene la vittoria un risarcimento per tutte le delusioni patite e per questa attesa decennale. Come se noi dieci anni fossimo in finale di Champions. Un ambiente poco interessato al percorso, quasi infastidito dal tragitto, con lo sguardo rivolto esclusivamente alla meta. Tutto questo Rafa lo ha capito. Ha avuto nove mesi per capirlo. E del tifo napoletano si è preso persino il meglio. Gli applausi di Napoli-Arsenal e finanche quelli di Napoli-Porto. Qualche fischio sì, ma poca roba. Il popolo dello stadio non è ancora riuscito a dirlo, ma gli è affezionato. In qualche modo si aggrappa a quell’omone che ha vinto tutto eppure ha scelto noi. Chissà se basterà.
Fossimo in politica, Rafa dovrebbe tenere un discorso alla nazione. Ma parliamo di pallone. E Benitez ha scelto la strada più impervia: sradicare il gioco dalle fondamenta, ribaltare la mentalità. Per poter competere sempre coi più forti. Da pari a pari. Ecco, questo forse è troppo per noi. Non ce la facciamo. Non siamo pronti. Da pari a pari non fa per noi. Qui c‘è ancora chi non si rassegna all’idea di giocare con due centrocampisti. Noi dobbiamo presentarci sempre come Calimero. Nell’abito buono non ci sentiamo a nostro agio. Non lo saremo mai. Speriamo solo che Rafa non lo abbia capito.
Massimiliano Gallo