Al Paìs: “Il mio calcio è quello terreno di Maradona, passione pura. Ma il risultato non mi basta, il Girona deve divertire”

Quando Miguel Ángel Sánchez, detto Míchel. Allenatore di gran moda. Il suo Girona non è nemmeno più una sorpresa. “Capisco il calcio come quando ero piccolo: voglio divertirmi. Questo è quello che voglio per le mie squadre, è allora che mi rappresenteranno. Quando vanno avanti, quando sono aggressivi, quando cercano la porta avversaria. Perché quando ciò accade, quando una squadra ha un’anima, è allora che il tifoso finisce contagiato”.
Alla prima domanda della lunga intervista che concede al Paìs, è già dalle parte del “mio gioco”. Non c’è verso di uscirne. Tanto che persino il giornalista gli chiede se non sia ormai un luogo comune. “L’immediatezza nel calcio esiste, la fanno i risultati. Ma quando sento “non mi interessa come, quello che voglio è che tu vinca”, so che quel posto non fa per me. “Non è falsa modestia o umiltà, ma non cerco riconoscimenti personali. E tutto ha una spiegazione: voglio che i giovani crescano, non che si parli del fatto che la squadra di Míchel gioca bene. Lavoro con le persone. Voglio che guadagnino di più, che siano più importanti nel mondo del calcio”.
Dice di ispirarsi a Maradona: “Diego era il calcio. C’è una bellissima frase di Valdano: “Se Maradona indossa una tuta e gli lanciano una palla piena di fango, la controlla con il petto”. Capisci? Questa è la passione di cui parlavamo. Il calcio di Messi è immortale, quello di Maradona è terreno. Con i suoi errori Maradona affascinava tutti. Voglio questo per le mie squadre, non quello che Diego ha fatto con il suo talento, perché è impossibile, ma quello che ha trasmesso: amore per il gioco. Diego ha mosso un intero Paese nel caso dell’Argentina e della città di Napoli. Ora abbiamo un’intera provincia che aspetta l’ingresso in Champions League. Come possiamo essere così avari e dire che vale solo il risultato? L’altro giorno abbiamo vinto a Las Palmas ed ero contento del risultato, pensando però che non era il Girona che avevamo costruito. Ho detto ai giocatori: ‘Voglio finire la stagione e far dire alla gente: il Real ha perso solo una partita, ma la squadra che ha fatto parlare di sé quella stagione è stato il Girona”.
“A Vallecas siamo molto vendicativi, siamo sempre stati il brutto anatroccolo di Madrid e siamo a 10 minuti dal centro. Ricordo quando uscivamo a far festa con i miei amici nei locali del centro. Indossavano tutti delle Nike e mio padre mi aveva comprato delle Nike, con una enne alla fine. Non ci hanno lasciato passare, ma siamo tornati indietro. È una questione mentale. Nel calcio, lo stesso. Devi alzarti ogni giorno pensando di essere migliore, di lottare, di avere degli obiettivi. La storia è ancora da scrivere. Ho detto ai giocatori: la differenza tra Fede Valverde, che gioca 70 partite all’anno e rimane concentrato, e altri che ne giocano 35, non è fisica. Tutti sono preparati. La differenza è mentale”.
“Ho sofferto molto, quando giocavo e adesso anche da allenatore. Da calciatore non mi esprimevo al meglio in campo, lo facevo solo nei piccoli dettagli. Ed ero un bravissimo calciatore. Era un problema mentale, ero pigro. Oggi faccio terapia e utilizzo anche gli strumenti di consapevolezza, rilassamento e respirazione che ho interiorizzato e che pratico ogni giorno”.