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Ottavio Bianchi: «non vincemmo lo scudetto solo per Maradona. Più importanti collettivo e organizzazione»

Al Corsera: ««Napoli è una lezione di vita. L’importante è non farsi assorbire. Oggi conta più apparire che lavorare, i giocatori sono aziende»

Ottavio Bianchi: «non vincemmo lo scudetto solo per Maradona. Più importanti collettivo e organizzazione»
1986 archivio Storico Image Sport / Napoli / Ottavio Bianchi / foto Aic/Image ONLY ITALY

Ottavio Bianchi intervistato dal Corriere della Sera. Qualche domanda e risposta all’allenatore del primo scudetto del Napoli, oltre che della Coppa Uefa del 1989.

«Sono nato a Brescia, vivo a Bergamo da 50 anni, ma la lezione di vita l’ho ricevuta a Napoli».

Lei e Napoli siete il ghiaccio e il fuoco…

«Sono sempre stato accettato come sono e i napoletani non hanno mai pensato di cambiarmi. Ricordo, da giocatore, il primo incontro con Achille Lauro. Mi disse: “Guaglio’, m’avevano detto che tenevi la capa tosta”».

Mai nessun problema?

«Napoli trasmette la gioia di vivere. Basta saper osservare e ascoltare, è un insegnamento continuo. L’importante è non farsi assorbire».

Maradona.

«Sì, ma non vincemmo lo scudetto solo per lui. Sono più importanti il collettivo e l’organizzazione di gioco».

Com’era il suo rapporto con l’asso argentino?

«Per me contava solo il calciatore ed era un talento straordinario. Abbiamo avuto scontri e incontri, ma mi ha sempre rispettato».

Ha fatto una triste fine.

«Avrebbe dovuto fare una vita più regolare, evitare certe frequentazioni. Un giorno gli dissi che avrebbe fatto la fine di un pugile allo sbando. “Vuoi proprio finire come Monzón?” (il pugile argentino che morì a 52 anni in un incidente stradale mentre tornava in carcere dove scontava la pena per l’omicidio della terza moglie, ndr). “Lei ha ragione, mister”, mi rispose, “ma io voglio vivere la vita con il piede che spinge sull’acceleratore.” Allora mi resi conto che non c’era niente da fare».

Ottavio Bianchi ha lasciato il calcio da vent’anni, ha nostalgia?

«Nessuna. Non sarei adatto. La mia educazione era completamente diversa. Dovrei ritornare a scuola».

Non si può più applicare il motto del suo allenatore.

«No, oggi conta più apparire che lavorare. La comunicazione è tutto. I giocatori sono aziende. Il calcio è lo specchio della società in cui viviamo».

È solo business?

«Di sport vedo gran poco. Ormai è normale guadagnare 2-3 milioni netti di ingaggio. Conosco imprenditori con decine di dipendenti che non si sognano di mettersi in tasca così tanti soldi. La ricerca del guadagno rischia di stravolgere i valori con cui uno come me è cresciuto».

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