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«Jannacci vendeva pochi dischi. Diceva sempre: “grande successo, ma non si monetizza un cazzo”»

Il figlio Paolo al Venerdì: «C’è stato un lungo periodo in cui non riusciva a farsi capire e non era capito. Sperava di essere onorato da vivo».

«Jannacci vendeva pochi dischi. Diceva sempre: “grande successo, ma non si monetizza un cazzo”»

Il Venerdì di Repubblica intervista il figlio di Enzo Jannacci, Paolo. A dieci anni dalla morte del cantautore, ne racconta vita e canzoni in un libro in uscita il 17 febbraio per Hoepli. Paolo ha collaborato con il padre Enzo negli ultimi vent’anni di vita. Racconta come è stato.

«Bellissimo e difficilissimo, perché padre e musicista erano elementi inscindibili, e i comportamenti si intrecciavano. Ma la musica è stato il modo per superare i contrasti, per unirci. Perché ovviamente è arrivato prima il padre, e da buon figlio maschio nell’adolescenza ci ho avuto un rapporto orrendo. Poi siamo cambiati. Tutti e due, la musica ci ha fatto diventare più adulti, aiutato a costruire un rapporto di amicizia, che si è consolidato col lavoro di artista».

Lei come interveniva sul lavoro di Enzo Jannacci?

«Di sottrazione, levando musica, accordi, rendendo più lisce canzoni a volte ispide. Era la sua generosità, d’altronde, quella che lo portava a parlare a raffica per dire quattro cose contemporaneamente, col risultato a volte di essere incomprensibile».

Jannacci sentiva fortissimo il desiderio di fare la differenza, era come se vivesse una rivalsa, racconta Paolo.

«Come diceva spesso, “grande successo, ma non si monetizza un cazzo”. Lui è stato unico anche per quanto la sua popolarità non si è tradotta in dischi venduti. Non pochi, certo, ma non quanti sarebbe stato lecito aspettarsi. C’è stato un lungo periodo in cui non riusciva a farsi capire e non era capito».

Nei dieci anni dopo la sua morte Jannacci è stato dimenticato o rivalutato?

«Rivalutatissimo, come capita spesso ai morti, ma a lui anche di più. Certo, lui diceva: “Onoratemi da vivo, così mi diverto di più”. Purtroppo solo dal 2013 in poi si è capita questa genialità che arrivava come un lampo e travolgeva tutto. Lui era così: se vedeva un ostacolo, un luogo comune, uno schema mentale, lo demoliva, invece di aggirarlo come faccio io. Penso a quando propose al Festivalbar La fotografia, su un ragazzo ucciso dalla mafia: dopo 10 secondi fu travolto dai fischi del pubblico che voleva solo divertirsi, ma se ne fregò. È stato fortunato a non avere a che fare col politicamente corretto di adesso, che ci impedisce di avere arte vera. Pensi a cosa avremmo rischiato di perdere».

 

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