Lo spagnolo fa il nuovo Nadal e l’altoatesino rischia di pagare i danni del sensazionalismo precoce. Da noi lo hanno criticato perché a Miami non ha salutato il pubblico
Con la funzione trova/sostituisci è facile: via Sinner, dentro Alcaraz. La narrazione tossica, quella dell’eletto – Neo, se il tennis fosse dentro Matrix – che un giorno arriverà a dominare tutte le racchette, ha già prodotto uno spaesamento evidente: vuoi vedere che il supereroe era l’altro? Ci avevamo fatto la bocca a questo miracolo altoatesino, e poi arriva uno spagnolo appena maggiorenne a ricordarci che tutto il “paragoname” annesso è fuffa. Chi vince (Alcaraz), chi perde (Sinner), una partita a distanza anche biografica. Come se adesso ci fosse un reflusso di retorica: Alcaraz è Nadal e Sinner cos’é?
Sono i mostri che produce il sensazionalismo precoce. L’idea, sempre deteriore, di scovare un mito prima che lo diventi, e poi demolirlo se poi lo diventa qualcun altro. Non siamo ancora a questo, ma il guaio è lì, ad un passo. E’ dal 2019, Challenger di Alicante, che Sinner e Alcaraz hanno un destino in condivisione. Vinse Alcaraz, allora. E vince ancora. All’aggiornamento del ranking Atp il computer ha piazzato lo spagnolo al numero 11, l’italiano al 12. Alcaraz, peraltro, è andato a vincere il suo primo Master 1000 proprio a Miami, dove Sinner l’anno scorso fu finalista, sconfitto da Hurkacz. A 18 anni ha già battuto un top 10 sette volte su tredici sfide. “E rivoluzione fu”, titola El Pais.
Che Alcaraz sia oggettivamente già pronto, prefabbricato quasi, per piazzarsi in cima e non scendere più, è un’evidenza banale. Lo sa persino lui: “Posso vincere uno slam già quest’anno, non ho paura a dirlo”. Fondamentali tecnici, fisico di caucciù, variazioni, concentrazione, gestione del match, persino una dignitosa volée: ha tutto. Ha pure una delicatezza di modi da libro Cuore che negli spogliatoi del tennis piace sempre: in Florida ha contraddetto una chiamata del giudice di sedia dando ragione a Kecmanovic, e a Ruud ha concesso di rigiocare una prima di servizio quando si è accorto che la palla era rotta. Disarmante.
Ora qualcuno corra a salvare Sinner, povero ragazzo. Che ha già cominciato a pagare questa sua insistenza a non vincere tutti gli Slam entro i 21 anni, come pure gli italiani avrebbero diritto a pretendere (è il sottotesto di chi lo sport lo vive di riflesso): a Miami ha lasciato il campo devastato dalle vesciche, “ma non ha salutato il pubblico”, gli hanno rimproverato. Altro non detto: bravo eh, Jannik, ma hai visto l’altro? Quello sì che spacca.
E’ un desiderio indotto, Sinner. Una bolla. E’ numero 12 del mondo, ha già giocato di sponda sull’infortunio di Berrettini, le Finals. Vivrà costantemente nella top ten per il resto della sua carriera, presumibilmente. E’ già un campione. Ma non è abbastanza. Non lo è mai. Perché la fame della mitologia rumina i distinguo. Tutto ciò che di Sinner presumevamo, è confermato da Alcaraz. Come se i due fossero alternativi, e non parte della stessa storia. Ecco il baratro: la percezione a pantone bianco-nero. O tutto e subito, o chi se ne frega.
“No escape to Alcaraz”, persino i giochi di parola gli sono favorevoli. Non lascia scampo. L’altro, per traduzione, è “peccatore”: non gli si addice proprio. Anche se adesso sulla leva del peccato, del talento a rischio spreco, ci si butteranno alla prima occasione. Un meccanismo a somma zero: il relativismo del pre-giudizio. Pompare in favore di vento o soffiare contro. Alcaraz non ne ha bisogno, nemmeno Sinner.