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Ha ragione Velasco, in Italia non sappiamo vincere e in più siamo malati di passato

Il calcio italiano non è finito. È morto quello delle nostre cartoline. Sono morti i nostri stadi da ragazzi, le magliette senza sponsor, ed è terminata la nostra centralità

Ha ragione Velasco, in Italia non sappiamo vincere e in più siamo malati di passato
Madrid (Spagna) 11/07/1982 - finale Mondiali di calcio Spagna 1982 / Italia-Germania Ovest / foto Imago/Image Sport nella foto: Marco Tardelli ONLY ITALY

La notizia dell’Italia di nuovo esclusa dai mondiali è sicuramente tra quelle dolorose delle ultime settimane, seppure non la più bizzarra. Quest’ultima è probabilmente quella di un capo autoritario, che sta invadendo un altro paese e che parla in tv di Harry Potter per spiegare i suoi nobili intenti – un po’ come se Adolf Hitler, negli anni quaranta, avesse parlato delle fiabe di Andersen per dare conto di alcuni milioni di ebrei nelle camere a gas. Putin pare infatti sinceramente preoccupato del fatto che in occidente la povera J.K. Rowling sia assediata dalla disastrosa cancel culture – che tanto cancelling non deve poi essere, visto che la Rowling è discretamente ricca ed ella stessa, in un tweet, ha risposto che, oltre a passarsela benino, non ha piacere nel sentirsi difesa da un criminale che squarta popolazioni e incarcera dissidenti.

L’Italia che piange se stessa e il dittatore che si difende contro l’agenda globalista hanno alcuni interessanti punti di contatto: la propria irrilevanza, vissuta come una apocalittica tragedia. Gli occidentali, in generale, raccontano del tramonto dell’Occidente da circa duemila anni, versano lacrime e peani sulle loro purulenti piaghe, eppure l’Occidente intero, incluso il suo calcio morente, continuano ad essere sogno e aspirazione di tutti – a partire da chi scrive le reprimenda sulle sorti del mondo e mai ha varcato il limite dell’asse mediano fino agli oligarchi presunti ideologi del Russkiy Mir i cui yacht vengono trovati tutti stranamente attraccati in Costa Smeralda e non sulle rive del Volga o a Novosibirsk.

Ogni decennio, ogni secolo, ogni anno ha conosciuto e conosce le voci degli amici di Oswald Spengler disquisire di quanto velocemente stiamo svanendo, ad ogni livello, lontani da una ormai inarrivabile età dell’oro. Così va anche nel calcio ed in quello italiano, dove si confonde l’irrilevanza con la morte, nei fatti facendo cattivo uso della prima che non è una entità maligna ma uno stato ciclico nel quale si può anche scegliere di vivere bene, se si vuole, senza invocare le Erinni. Dodici anni di mondiali senza gli Azzurri sono vissuti come una tragedia epocale da cui null’altro potrà crescere se non la spinta dissolutiva – l’avidità degli attori in gioco, le aride multinazionali dello sport, i sempiterni valori smarriti – tutto ciò dopo aver derubricato velocemente quello che sembrava il tema principe del presunto colpevole della precedente disfatta, che in ogni tempo l’Italia deve scovare e crocifiggere in sala mensa – tale Signor Ventura.

Un problema italiano irrisolto, piuttosto, sembra rimanere il non saper vincere, come ben espresso da Velasco. Un paese tutto sommato ricco come il nostro rimane fatalmente ingabbiato nel proprio passato, vivendo schizofrenicamente ogni successo come una conferma dello splendore che fu e qualunque sconfitta come la riconferma che tale splendore mai più potrà essere, mentre nel mezzo ci sono tutte le fondamentali sfumature del divenire – il divenire, il vero grande sconosciuto per l’Italia.

Se esiste un nemico giurato e comune per noi nati nello stivale è la trasformazione. Storicamente, infatti, non siamo un paese di immigrati ma di emigranti e questo ha, nei decenni, rafforzato la nostra memoria invece che infiacchirla, affidandola spesso nelle mani dei più mediocri che ne hanno fatto paccottiglia da spendere per partiti politici. Perché il problema è riuscire a dimenticare, anzi a fottersene del passato, lavorando sull’equilibrio tra il sentirsene fatalmente corresponsabili e non permettergli di giudicarci fino a esautorarci. Dunque, rimanere fuori dal mondiale per più di un decennio è una amara sconfitta ma cancellare o selezionare parte della memoria collettiva, evitando di continuare a parlare per un altro lustro di Italia Germania dell’82, non è affatto una cattiva idea. Come esseri umani viviamo anche grazie alla nostra capacità di cancellare parte di quanto vissuto dal nostro sistema nervoso, magari riconoscendolo come errore e non renderlo condizionante sul nostro oggi. Se si fallisce in questo tentativo di può finire col giustificare una criminale aggressione usando a pretesto un presunto avvenimento accaduto in un non meglio identificato millennio e mezzo fa, rischiando di fare catastrofi.

A tal proposito, suona bene uno degli ultimi pezzi degli Arab Strap – che si sono esibiti in uno straordinario live a Berlino qualche giorno fa: The turning of our bones inizia con con lapidario: “I don’t give a f*uck about the past / our glory days gone by”, che vedrei bene in futuro al posto di Fratelli d’Italia; tratta del poter sopravvivere alla memoria, che è poi quanto studiamo e curiamo ma rimane ciononostante l’ampolla di veleno per la nostra morte.

Dunque, l’irrilevanza. È uno stato delle cose. Come tutto quanto è importante, semplicemente capita. Il mondo va per i fatti suoi e se ci interessa vivere il calcio che conta, nei prossimi anni, probabilmente l’Italia non è il luogo principe. È bene essere preparati perché già il prossimo anno sarà probabilmente ancor più irrilevante dell’attuale per queste nostre passioni: bene quindi aver goduto di un europeo vinto (meritatamente) e di un Napoli in semifinale di Europa League qualche anno fa, perché è assai probabile che il prossimo futuro possa essere avaro di soddisfazioni.

Il calcio italiano non è finito. È morto quello delle nostre cartoline. Sono morti i nostri stadi da ragazzi, le magliette senza sponsor, sono morti i derby ed è terminata la nostra centralità. Siamo irrilevanti ma non è un crimine. È il tempo. Stiamo cambiando noi e sta cambiando il mondo. Non tutto si può sempre spiegare con Antonio Cabrini, Pierpaolo Pasolini e Alberto Sordi. Il domani sarà il domani. Come afferma la canzone “la carne è pronta, ma lo spirito è debole”.

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