In città i trasformisti del tifo fanno i becchini (altro che stampa del Nord). Ancelotti ha le sue colpe: non piange, non si lamenta, non si appiglia ai rigori
Esiste una categoria professionale che non ha bisogno di alcun intervento statale, sul modello reddito di cittadinanza, per poter sopravvivere alle cicliche crisi economiche: una di esse è quella del giornalismo sportivo, locale e nazionale. Finché esisteranno i famigerati tifosi del Napoli ciascun addetto ai lavori saprà, in cuor suo, di aver accantonato un enorme debito con la fortuna e un consistente vitalizio.
Cosa direbbe la cronaca? Che la squadra prima in classifica ha un debito finanziario pari a 15 volte (leggasi 15) il patrimonio netto e che la proprietà “va in soccorso” con 241 milioni di euro descritti dalla succitata categoria professionale come “politica di espansione” (chi di noi, d’altra parte, pagando un mutuo su una casa, non ha avuto la sensazione di espandersi?); che la stessa squadra ha una panchina talmente lunga, quest’anno, che Mandzukic, un signore che qualche mese fa ha giocato la finale di coppa del mondo, è fuori dalla lista Champions; che la medesima squadra ha acquistato, sull’onda di questo meraviglioso afflato di neo-classicismo calcistico nazionale, l’allenatore simbolo del calcio-bellezza-rivoluzione puffettosa per spodestare il grigio Gargamella del pallone anche noto come Allegri, e si trova con quattro punti in meno rispetto all’anno scorso, un calcio pressoché identico e una Champions grosso modo normaluccia – anche qui la stampa riesce in un lavoro di aggiramento spettacolare, notando che i risultati sono comunque superiori alle aspettative perché l’impatto dell’enorme cambiamento culturale richiesto a Cristiano Ronaldo e compagni è stato enormemente limitato.
La cronaca potrebbe continuare. Raccontandoci che l’Inter ha cinque punti in più dei nostri ma ha pareggiato in casa, in Champions, con lo Slavia Praga – che il Barcellona ha battuto, in trasferta, quasi senza tirare in porta; e che la fantasmagorica Atalanta – la Dea della rivelazione, quel topos calcistico che ogni giornalista che si rispetti auspica di avere durante una annata pallonara perché ricco di spunti moralistici, politicamente neutro e ottimo argomento poco impegnativo da usare nei salotti sportivi e parasportivi – ha tre punti più degli azzurri alla nona giornata ma viene da una esperienza europea non proprio esaltante, avendone presi cinque dal City, due dallo Shakhtar e quattro dalla Dinamo Zagabria.
Eppure, cari amici lettori, sapete chi davvero deve preoccuparsi? Indovinereste chi deve urgentemente scendere da questo piedistallo di beato ottimismo? Riuscite voi a scoprire quale squadra sta invecchiando? Ebbene sì, il Napoli. Il Napoli sarà pure in testa al girone nella competizione continentale, dopo aver battuto i campioni uscenti; avrà anche vinto fuori casa qualche giorno fa in una partita entusiasmante a Salisburgo; avrà anche i conti in ordine e nuovi innesti, tra lo scorso anno e quello attuale, di enorme valore. Ma ha ben sei inaccettabili punti dalla Juventus. Dunque, è già tutto finito.
A spingere verso queste esequie, tuttavia, non è la famosa stampa del nord, come qualche tempo fa ha indicato il presidente De Laurentiis. L’opera di becchini la fanno i celebrati tifosi del Napoli, quelli che “contro il Liverpool forse si prevede una discreta cornice di pubblico”. Mentre i giocatori ci mettono tutto ciò che possono, a volte con profitto altre volte meno, il tifoso napoletano va incontro ad una metamorfosi degna delle saghe Marvel e i combattenti del divano della domenica, figli del sogno sarrista, ora si muovono pian piano verso una difesa dei colori bianconeri, del loro saper investire, del loro saper ottenere sette minuti di recupero in una gara. A dimostrazione che nessuna politica è peggiore del paese che rappresenta, questo trasformismo sportivo mi ricorda le grandi epopee del centro-trattino-destra e centro-trattino-sinistra italiani dei famosi anni novanta, la Margherita della grande unione ulivista, i Casiniani della grande Casa delle Libertà, uomini e donne che si svegliavano riformisti ma non troppo, liberali ma senza eccessi, alla fine tutti fratelli – perdonatemi qualche ricordo, di questi tempi, quasi con qualche rimpianto.
Sulla nostra panchina siede l’unico che non piange. Che chiude velocemente sul rigore, che secondo lui non c’era. Che non si lamenta. Certo non ha il passato da romanzo russo nella siderurgia nazionale come Maurizio Sarri, un allenatore che deve a Napoli quasi ogni sua fortuna, visto che solo da queste parti gli è riuscito il trucco del calcio spettacolo che non si è mai visto da nessuna altra parte. Non ha neanche il tocco magico di Conte, re mida per definizione. Né l’aurea favolosa bergamasca, figlia di un altro celebrato signore dei lamenti. Noi siamo con Ancelotti: a questa squadra mancano i tre punti di Cagliari. Tant’è, in una città in cui si chiede a 96 nuovi agenti di Polizia Municipale di percorrere 800 metri in 4 minuti e li si vede protestare perché questo tempo record equivale a “chiederci di essere dei Rambo”. A Napoli, Silvester Stallone non avrebbe salvato gli amici in Afghanistan, avrebbe più serenamente fatto le contravvenzioni.