L’isteria da calciomercato non si è palesata nella realtà, il Napoli è stata descritta come una squadra in disarmo e invece ha tanta fame di vittorie.
Il Napoli non può essere pigro
Mancano pochi minuti alla fine di Lazio-Napoli. Duello Allan-Immobile, il centrocampista del Napoli ruba il tempo al centravanti biancoceleste e mette la palla in fallo laterale. Allan stringe i pugni in un gesto di esultanza, gesto inconsueto per un’azione del genere. Pochi minuti dopo Karnezis fa la stessa cosa, persino con più enfasi, dopo che la difesa del Napoli era riuscita a sventare un pericoloso attacco laziale.
Non male per una squadra giudicata frettolosamente slabbrata e forse anche pigra. La voglia di vincere sembra intatta. In effetti non è poi così strano che una squadra reduce da un campionato meraviglioso, senza però portare a casa nulla (se non il record di punti per una squadra seconda classificata in Serie A), abbia ancora fame.
Squadra che vince non si cambia
Invece a molti sembrava scandaloso che in campo tornassero sostanzialmente gli stessi undici della passata stagione, a parte Jorginho e Reina. Dimenticando il più famoso dei vecchi proverbi del calcio, “squadra che vince non si cambia”. Proverbio obsoleto e forse osceno, soprattutto per chi crede nei poteri taumaturgici del “dio calciomercato”. Dopo i piagnistei di tutto il precampionato, dopo i giudizi sferzanti di quasi tutta la stampa specializzata, il Napoli ha mostrato di essere ancora se stesso. Almeno così è stato sabato.
Lasciare una squadra forte pressoché intatta a molti deve essere sembrata una bestemmia. Effetto CR7, oppure effetto Inter. Dimenticando che i meccanismi di una squadra si costruiscono un po’ alla volta, e che qualsiasi rivoluzione, anche la più positiva, ha bisogno di tempo per portare frutti. Ma l’isteria partenopea, e la presunzione di quasi tutti i media, hanno descritto il Napoli quasi come reduce da un campionato fallimentare, bisognoso di una rifondazione di cui qualsiasi persona ragionevole non avrebbe visto la necessità.
Il precedente del 1986
Ai più giovani vorrei ricordare che nel famoso anno del mitico primo scudetto, quello di cui tutti parlano ancora, la campagna acquisti del Napoli si basò quasi tutta su TRE GIOCATORI TRE.
- Andrea Carnevale, che l’anno prima aveva segnato la bellezza di 8 reti in 27 presenze nell’Udinese (un Roberto Inglese ante-litteram)
- Nando De Napoli, ventiduenne proveniente dall’Avellino (non dal Real Madrid), grande promessa del calcio italiano dell’epoca, ma non ancora calciatore affermato, come le sole 5 presenze nella nazionale di allora dimostravano.
- Francesco Romano, grandissimo jolly pescato nel mercato di riparazione di ottobre (allora il mercato invernale si apriva a campionato appena iniziato). Il mitico Romano, entrato successivamente nei libri della storia del Napoli, proveniva dalla Triestina, squadra di serie B, dopo aver fallito nel Milan.
Poi arrivarono anche dei panchinari, rivelatisi poi utili alla causa, come Muro, Sola e Volpecina, più il portiere di riserva Di Fusco. Furono ceduti Baiano, Bertoni, Pecci e Penzo. Una campagna acquisti per nulla scoppiettante, soprattutto se paragonata a quella di altre squadre, in primis il nuovo Milan di Silvio Berlusconi, che si presentò al mondo del calcio comprando in un solo colpo Galli, Massaro, Galderisi e soprattutto Donadoni. Tre nazionali e il giovane più promettente (e costoso) del calcio italiano (Donadoni). In pratica i pezzi più pregiati del calciomercato dell’epoca.
A Napoli c’erano abbastanza elementi per gridare “Ferlaino pappone!” Invece no, i social non esistevano, e la tifoseria napoletana accolse i nuovi arrivati con entusiasmo. Beh, grazie tante, diranno tutti. C’era Maradona. Si è vero, però Maradona, il giocatore più forte di tutti i tempi, e già allora il più forte del mondo, era a Napoli già da due anni. E la sua squadra l’anno prima era arrivata terza (tra i festeggiamenti del pubblico), e non aveva ancora vinto nulla. E l’anno dell’esordio del pibe de oro era arrivata ottava dopo un inizio di campionato scioccante.
Lo scudetto non era arrivato ancora perché la squadra non era ancora sicura di sé. Quando i tempi furono maturi, con giocatori che ormai si conoscevano e giocavano insieme da qualche anno, l’alchimia si trasformò in vittoria. Anche grazie all’approccio pragmatico e alla filosofia del lavoro di Ottavio Bianchi, un “leader calmo” alla Ancelotti. Il calciomercato del 1986 non fece altro che completare una squadra già forte di suo. Servì a riempire dei vuoti, non a fare delle rivoluzioni.
Un calciomercato di perfezionamento
Il calciomercato del 2018 ha seguito la stessa filosofia. Perfezionare una squadra già forte con dei nuovi innesti, sostituendo pochi calciatori. E, come nel 1986, riuscendo a trattenere quasi tutti i migliori giocatori. Convincendoli soprattutto della bontà del progetto. Sarebbe bastato guardare la panchina di sabato sera per rendersene conto. E Ghoulam non c’è ancora…
In troppi credono ancora che le squadre si costruiscano esclusivamente facendo acquisti a raffica (e spesso a vanvera). Superfluo ricordare quante squadre hanno vinto lo scudetto ad agosto, fallendo poi miseramente in inverno. E contrariamente al pensiero di molti, neanche il calciomercato più esaltante soddisfa tutti. Si leggono già critiche a quello dell’Inter, da domenica sera definita da molti male assortita, e forse addirittura sopravvalutata, dopo averla eletta regina del calciomercato. E arriva addirittura qualche mal di pancia dal mondo juventino. Infatti non pochi tifosi bianconeri, che tutti ci aspetteremmo sprizzanti di gioia per l’arrivo di Cristiano Ronaldo, si stanno lamentando della cessione di Higuain. Come ha fatto domenica sera uno juventino doc come Sergio Brio a Radio Uno, indicando nella partenza dell’argentino un errore in ottica Champions.
È il maledetto distacco tra le chiacchiere (alimentate dai social) e i fatti. Per fortuna ci pensa il campo a riportare tutti alla realtà.