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Il calcio ha sempre ignorato il razzismo. Ora annaspa, ridicolo, di fronte ad Anna Frank

La verità è che non glien’è mai fregato niente a nessuno. Compreso il Napoli. L’unico che affrontò il tema fu Benitez. Lotito in sinagoga sembra Jerry Lewis

Il calcio ha sempre ignorato il razzismo. Ora annaspa, ridicolo, di fronte ad Anna Frank
Lotito in sinagoga, a Roma

Una piaga dell’ignoranza

Del razzismo negli stadi non frega niente a nessuno. È un moving target per eccellenza – quando pensi di averlo centrato sguscia via e si trasforma in altro. È un male sociologico, una piaga dell’ignoranza, lo strascico malevolo dei social. Già la lista si allunga troppo perché davvero qualcuno abbia la pazienza di leggerla. Una cosa so, e un’altra la percepisco. Quella che so è che sulla soglia del palazzo di Praga dove vivo c’è una pietra d’inciampo, cinque sampietrini di bronzo con su riportati i nomi di padre madre e tre figli che abitavano dove ora abito io, deportati al campo di Theresienstadt, qualche decina di chilometri da qua – ma l’inciampo richiede un movimento fuori casa, lontano dal focolare di babbo e mamma, distante dalla città circa la cui difesa migliaia di tifosi ci ammorbano settimanalmente. La cosa che percepisco, invece, è il riso: se penso a Lotito in Sinagoga, abbiate pazienza, ma rido. È più forte di me. Mi viene in mente Jerry Lewis.

L’unico ad affrontare il tema razzismo fu Benitez

Sull’orrore dei cori sul Vesuvio che erutta, abbiate pietà, non ci credo più. Mi suona illusorio e ipocrita qualunque tirata moraleggiante. A Napoli un solo uomo affrontò seriamente l’argomento e fu Rafa Benitez. Ci guardò negli occhi, preventivamente, in cerca di un accordo, nel quale fosse chiaro che se una lotta doveva farsi non era in difesa di colori, palazzi, storia, recriminazioni, casse del mezzogiorno e altre cento di queste istanze ammuffite che il diavolo se le porti, ma a supporto di valori universali. Civili.

Lo sport è una grande avventura psicologica collettiva. Non svilirla. Educhiamoci a parlare al nostro odio senza negarlo. È necessario infatti utilizzare anche l’odio, per vincere, lo si riconosca, ma sgrossandolo, facendone leva per spiccare il volo, o uno specchio per guardarsi le viscere. Anche l’odio ha bisogno di un linguaggio umano. Rafa ci provò, ma nessuna azione popolare lo seguì. Perché, appunto, del razzismo negli stadi – al di fuori delle arcinote retoriche a difesa del sangue azzurro che scorre dint ‘e vvene – non gliene frega niente a nessuno.

Anche il Napoli è fermo sul tema dei diritti

Il Napoli, che chi scrive ritiene l’avanguardia culturale cittadina, sul tema dei diritti è fermo al palo. (Anche perché la città è ferma diversi chilometri prima di quel palo). È fermo, per la precisione, alla notte del famoso “frocio” indirizzato a Mancini. Qualcuno di noi sperò in un sussulto rivoluzionario, nell’apertura ad una discussione che nascesse sullo squarcio di qualche passo politicamente scorretto. Invece la realtà fu più avara di sentimenti: era proprio e solo una sterilissima parolaccia, di quelle per i quali i bimbi vengono messi in castigo. Questo è il livello della discussione sui diritti, di donne e uomini, nel calcio italiano, e nel calcio a Napoli. Inutile illudersi.

Ora dobbiamo spiegare che Anna Frank, tutto sommato, se la passava peggio di noi. E che per questo i cinque ebrei che vivevano nel mio appartamento decenni fa, e che finirono in un forno, ebbero qualche problema in più dei miei, la cui maggiore preoccupazione nei prossimi giorni sarà sapere se Rog finalmente gioca una volta novanta minuti da titolare o no. Ma serve spendere tempo e risorse per spiegarlo? Io credo di no. Se non inciampi, non capisci. E qui si sta tutti immobili a quel palo.

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