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Strutture giovanili modello Ajax e Partizan o top club? In Europa solo il Barcellona è doppio leader

Strutture giovanili modello Ajax e Partizan o top club? In Europa solo il Barcellona è doppio leader

Questa mattina, Francesco Grasso ha pubblicato sul Napolista un pezzo che ha fatto molto discutere, intiolato «Perché al Napoli non conviene investire in un centro per le giovanili». Nell’articolo, c’è una ricostruzione delle motivazioni che hanno spinto (potrebbero aver spinto) finora Aurelio De Laurentiis a non costruire un centro sportivo in cui allevare i giovani del vivaio azzurro. Una sorta di Masia à la Barcellona, il luogo in cui far fiorire la cantera azzurra. 

Un punto di vista un po’ forzato. Anche se l’incipit di Francesco Grasso («Perché si chiede al Napoli di investire nelle strutture per far crescere nuovi talenti (campani)? I pro della richiesta li conosciamo ma vanno bilanciati soprattutto alla domanda: è conveniente?») ricorda e in qualche modo contempla necessità e lati positivi dell’eventuale nascita di questo tipo di struttura, i lati negativi sembrano troppo enfatizzati rispetto a quegli stessi pro che, nel pezzo, vengono solo “annunciati”. 

Quindi, premettiamolo: ben vengano le strutture per i giovani e anche per una prima squadra che, ricordiamolo, è in affitto pure a Castel Volturno. Però un certo tipo di investimenti deve essere parte di una strategia globale, di crescita armonica e corporata. Sempre oggi, il Napolista ha pubblicato un altro pezzo interessante, a firma di Leo Prina. Un articolo condivisibile soprattutto quando, parlando delle difficoltà/possibilità di aumentare il fatturato, scrive: «A noi manca uno scouting valido, illuminato, con l’occhio lungo e non solo per il vivaio. Ricordiamo che in passato abbiamo dovuto comprare giocatori come Fideleff o Dimitru e altri ancora i cui nomi sono evaporati dalla mia memoria; giocatori non certo da Napoli e neanche di prospettiva». Il tempo di riprendermi dall’immagine quasi sacra di Fideleff e Dumitru in maglia azzurra, ed ecco che in me è scattata la standing ovation: le giovanili, e quindi la creazione di strutture ad hoc, possono essere mezzo e possono essere fine. C’è da fare una scelta precisa, e non lo dice solo la situazione del Napoli. Lo dicono le statistiche.

Lo dice il Ceis Football Osservatory in un report pubblicato a novembre scorso in cui si analizzava l’incidenza dei settori giovanili europei nelle leghe del Vecchio Continente. Inutile dire quanto le squadre italiane siano indietro rispetto alle altre (non ce n’è nemmeno una tra le prime venti, così come non ce n’è una tedesca), le cifre sono terribili: appena l’8,6% dei calciatori utilizzati nel nostro massimo campionato sono cresciuti in squadre italiane. Peggio di noi fa solo la Turchia. Però, quello che salta all’occhio è che, a parte il caso unico del Barcellona, il resto delle Academy vive in luoghi dove non si vince. Oppure, se si vince, lo si fa solo e unicamente in casa, con la competitività internazionale che non si vede neanche dal binocolo. La prima squadra per numero di calciatori prodotti dal vivaio è il Partizan Belgrado (78); seguono l’Ajax, il Barcellona e poi Sporting Lisbona e Dinamo Zagabria. Ecco il prospetto riferito a tutti i 31 massimi campionati europei. Accanto al numero totale di calciatori formati nelle squadre giovanili, ci sono le cifre riterite ai calciatori ancora di proprietà del club e la percentuale di utilizzo nelle loro società di appartenenza. 

Nelle prime 20 posizioni, tre sole squadre dai cinque campionati europei più importanti (Spagna, Inghilterra, Germania, Italia e Francia). Se pure andassimo a stringere il cerchio intorno a questi campionati, noteremmo come le Academy più prolifiche facciano riferimento a squadre che hanno compiuto una scelta: quella di concentrarsi, e quindi di concentrare lavoro e risorse, sullo sviluppo dei giovani del vivaio. O che, possedendo fatturati enormi, possono permettersi di diversificare pure gli investimenti, puntando tanto anche sulla crescita dei giovani. La classifica riferita ai cinque grandi campionati è questa qui, con gli stessi parametri di quella di cui sopra:

Il Barcellona è come la Juventus per Sarri, un cannibale. Poi ci sono il Lione, il Real e il Manchester United. E poi giù, fino all’Inter buona 11esima e all’Atalanta, noblesse oblige, 18esima. Come abbiamo detto, lo ripetiamo e lo ampliamo: ci sono i top club e poi c’è un piccolo esercito di squadre medioborghesi che, sostanzialmente, campano di questo. Di giovani da svezzare, verniciare, rivendere. Lo stesso Lione, secondo in questa classifica, ha avviato un progetto di ampio respiro giovanile dopo due decenni di spese folli del presidente Aulas, culminate con la semifinale di Champions 2010 e in una squadra piena di fortissimi stranieri e di grandi calciatori francesi non cresciuti nel club (Lisandro Lopez, Pjanic e Bastos, ma anche Lloris, Boumsong, Toulalan). E già si parlava di ridimensionamento: prima di quell’anno, infatti, erano (ben) altri campioni a vestire la maglia bianca, rossa e blu: Juninho Pernambucano, Fred, Cris, Tiago Mendes.

Parlare delle altre è superfluo: l’Athletic Bilbao non ha bisogno di ulteriori presentazioni o spiegazioni, Rennes, Bordeaux e Tolosa sono rispettivamente quinta, 13esima e 19esima in Ligue 1. E poi, la grande verità sui modelli inglese e tedesco. Due sole squadre britanniche su venti, solo una tedesca. E che squadre, poi: Manchester United, Arsenal e Bayern Monaco. Come dire: noi stiamo messi malissimo, ma anche gli altri non è che facciano tutto questo gran lavoro. 

Non si tratta di modelli, quindi. Ma di squadre, di scelte. E delle scelte delle singole squadre. Il Napoli ha avuto risultati giovanili pessimi in relazione alla carriera costruita dai suoi ex giovani calciatori: sono solo quattro, infatti, i giovani cresciuti nel Napoli dell’era De Laurentiis ad aver supreato le cinque presenze in Serie A (Insigne, Maiello, Sepe, Vitale). Si sarebbe potuto fare molto di più, sicuramente e indubbiamente. Ma dare la colpa alla mancanza di strutture è come dire che uno va al supermercato e dimentica di comprare i piselli surgelati perché non c’erano i carrelli liberi. Anche perché, perdonateci, lo stesso Insigne, che si è allenato a Sant’Antimo o chissà dove, è venuto fuori niente male. Questo è il punto: il talento, quando c’è, viene fuori. Più che sulle strutture e basta, quindi, il Napoli deve migliorare nello scouting, e di giovani già pronti o quasi (Grassi come Gabbiadini, ne abbiamo già parlato) e di talenti ancora in fasce, calcisticamente parlando. In Campania, in Italia, nel mondo. Anche perché, Athletic Bilbao a parte, pure la stessa Masia è ormai un luogo internazionale, una Babele del pallone. Il caso eclatante di Messi, ma pure quello dei fenomeni non spagnoli (o catalani) dell’oggi e del domani: il croato Halilovic, il brasiliano Rafinha, il francese Chendri, il sudcoreano Paik. 

Il Napoli ha bisogno delle strutture giovanili per poter dare ai suoi giovani un luogo in cui è più probabile che nascano i nuovi Insigne. Ma non è un investimento certo, soprattutto in un contesto calcistico come l’Italia, dove per arrivare in Serie A serve un’esperienza che nemmeno per la semifinale di un Mondiale. Figuriamoci poi a Napoli, un luogo dove fare imprenditoria o anche semplice edilizia sportiva è un mezzo miracolo. Il club azzurro ha bisogno di migliorare innanzitutto lì dove può farlo: trovare i prospetti migliori e poi cercare di svilupparli al meglio. Senza però togliere l’occhio vigile dall’altro mercato, quello dei calciatori “veri”. Come fanno (solo) i top club, lo dicono le statistiche. La via di mezzo, insomma. Real Madrid o Rennes: voi chi preferireste emulare?

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