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Se perdiamo c’è sicuramente un complotto, anche ai videogiochi

Se perdiamo c’è sicuramente un complotto, anche ai videogiochi

Come ho cercato di mostrare nel precedente articolo sui principi generali del fantacalcio, il gioco virtuale può diventare una sorta di laboratorio del mondo reale, rivelando alcuni degli interessanti meccanismi che si innescano nelle logiche del tifo: la percezione, le aspettative, i sentimenti che il gioco virtuale genera negli utenti possono influenzare, anche inaspettatamente, il rapporto che esiste tra noi ed il calcio giocato, e dar vita ad una specie di teatro nel quale si possano osservare e persino spiegare, in parte, alcune dinamiche della realtà che gravita attorno al mondo del pallone.

Un tema esemplare, a mio avviso, riguarda il legame che intercorre tra videogiocatori e simulazioni calcistiche. I videogame calcistici, infatti, come tutti quelli in cui una piattaforma virtuale debba gestire in tempo reale decine di agenti diversi che interagiscono con l’utente, sono quelli che più di altri sono mutati nell’ultimo decennio, avvicinando moltissimo il videogiocatore ad una esperienza cosiddetta “reale”. Se da una parte questo ha aumentato considerevolmente l’interesse e, di conseguenza, il mercato di questi titoli, dall’altra ha incrementato il numero e modificato la qualità delle critiche nei confronti dei suoi produttori.

In tal senso ritengo molto indicativa l’accesissima polemica, sorta da alcuni anni, tra una frangia non insignificante di appassionati del celeberrimo gioco Fifa della EA Sports e la casa produttrice del videogame. In buona sostanza, alcuni giocatori affermano di aver notato, durante il gioco, un bilanciamento artificioso e sospetto delle partite che porterebbe troppo spesso la squadra formata da elementi con caratteristiche, ai nastri di partenza, inferiori all’avversario, a riuscire nell’impresa epica di dar vita a rimonte inaspettate, o di ottenere risultati ritenuti alla vigilia improbabili. Questo strano effetto, che i critici giurano sia visibile ad occhio nudo, prende il nome di momentum, un termine inglese che sta proprio ad indicare quello slancio inaspettato, quella inerzia positiva che investe alcune squadre per le quali si dice che continui a girare tutto per il verso giusto.

Il momentum sarebbe adoperato dal simulatore al fine di equilibrare incontri altrimenti destinati ad un risultato scontato, e condizionerebbe in special modo le partite on-line tra avversari umani, durante le quali c’è chi giura di essere spettatore di eventi curiosi quali conclusioni che vanno inspiegabilmente alte sulla traversa, giocatori che non rispondono ai comandi, arbitri compiacenti che non fischiano falli nettissimi in area. Fino al punto di ipotizzare un vero e proprio scripting – una teoria del complotto in piena regola, secondo la quale il gioco ha il potere di stabilire, prima ancora che abbia inizio la partita, chi vincerà e quando, rendendo il videogame di fatto pilotato. La controparte – la EA Sports – nega a tutto tondo quella che ritiene una delle tante dozzinali teorie da cospirazionisti, affermando che un meccanismo del genere non è mai stato ipotizzato né implementato nei propri videogame di simulazione sportiva. Cosa c’è di interessante in questa che sembrerebbe una comunissima querelle tra giocatori e costruttori del giocattolo? Più di quanto si possa immaginare. E vediamo nel dettaglio.

Iniziamo col chiederci quando è che un giocatore inizia ad accorgersi di questo strano effetto sul gioco, e qual è il passaggio mentale che lo porta ad esser certo che esista una volontà di controllo studiata per determinare i risultati. La risposta è: quando si sente danneggiato. Non solo quando inizia a perdere ma, ancora più specificatamente, quando inizia a perdere ritenendo ingiusta la sua sconfitta per due sostanziali ordini di motivi: perché è in possesso della squadra che arruola gli elementi più forti sulla carta (miglior tiro, migliore visione di gioco, migliore forma fisica), e perché ritiene di essere il videogiocatore che sopravanzi l’avversario in esperienza (un termine chiave nel prosieguo del ragionamento). Quando ha costituito la congettura in base alla quale il simulatore bara, deve riempirla di significati verosimili che la battezzino dato di fatto. Il primo quesito cui dare una risposta è quello sul movente di questa presunta mano nera. È qui che i vocabolari della frangia polemica dei videogiocatori scontenti e la frangia oltranzista dei tifosi critici iniziano a sovrapporsi: la casa produttrice, infatti, da una parte favorirebbe i videogiocatori occasionali – quelli, per intenderci, per i quali si direbbe che “a Gela non c’erano” – al fine di guadagnarli come clienti; dall’altra, invece di tributare il giusto ringraziamento ai fedelissimi, farebbe leva sulla loro passione, a puro scopo di lucro, gettandoli nel circolo vizioso dell’acquisto di onerosi pacchetti aggiuntivi che facciano credere loro di aver reso la propria squadra imbattibile – né più né meno che un “simulatore pappone”.

Se non logica, può essere almeno verosimile questa teoria? Pare non avere nessuna importanza. Sebbene anche solo sul piano dei fatturati e delle strategie di mercato, immaginare che un gigante dell’informatica di questa mole decida lucidamente di seviziare i propri utenti per ottenere l’acquisto di qualche pacchetto aggiuntivo equivalga all’immaginare che la Mercedes inietti una essenza del formaggio più stagionato nei sedili delle proprie berline per indurre i clienti a comprare il deodorante giusto per la propria auto, il meccanismo è ormai partito, ed è ben oleato. Il giocatore naviga in rete, ed incontra altri giocatori, che recluta o dai quali viene reclutato, ai quali offre o dai quali ottiene una via alla redenzione che giustifichi la propria sconfitta in nome di una trama segreta, nascosta eppure pervasiva, come emblematicamente riassunto su uno dei siti che denunciano questa fantomatica combine informatica: “Si tratta di una teoria che da una parte spiega in maniera del tutto attendibile il perché del fenomeno e che, di fatto, è la più logica.” Senza scomodare nessuno dei più elementari principi della logica, il cerchio si è chiuso in una costruzione al contrario, nella quale a partire da un effetto – la sconfitta – si deve cercare un insieme di nessi, comunque assurdi, che possano semplicemente lenire il legittimo dolore del giocatore.

Nel calcio reale abbiamo ascoltato miriadi di storie analoghe, per motivi simili. Ad inizio campionato, ad esempio, molti commentatori avevano iniziato a costruire e discutere la teoria del complotto perfetto ordito da Benitez, che avrebbe escogitato l’avvio di stagione fallimentare per ottenere licenziamento e ritorno a Liverpool; sempre negli stessi salotti e nei medesimi giorni si discuteva della diabolica strategia di De Laurentiis, che avrebbe investito sull’allenatore e trattenuto i propri pezzi migliori solo per alzare il prezzo della società e vendere al migliore dei numerosi sceicchi potenziali acquirenti. Contesti nei quali trattare la buonuscita o vendere la società sarebbero stati scenari enormemente più semplici, dunque verosimili, eppure del tutto irrealistici per quei tifosi che non riescono a sopportare la sofferenza della naturale crudeltà insita a volte nella ingiustizia dei risultati.

Ma perché una polemica del genere non si è fatta strada prima e pare sorgere tra i videogiocatori proprio adesso? Il punto è che, in seguito ai progressi tecnologici, il gioco virtuale è passato attraverso una vertiginosa trasformazione del propria natura: i videogiochi calcistici di un tempo erano complicati come lo sono i labirinti o i rebus – difficili da risolvere, ma per i quali, una volta trovate le soluzioni, basta ripetere la medesima sequenza per ottenere sempre il medesimo risultato, come tutti, da Teseo a Pollicino, sanno bene; mentre quelli attuali sono sofisticate simulazioni, che devono riprodurre in scala temporale ridotta le dinamiche di un incontro di novanta minuti, includendo quindi anche elementi legati al caso. Paradossalmente, quindi, i videogiocatori in polemica contro gli intrallazzi delle partite on-line si lamentano implicitamente del fatto che il gioco virtuale sia diventato troppo reale. Per capirci, un pareggio a Marassi, al novantaduesimo, da parte di una squadra rimasta in dieci uomini e che ha rischiato di subire goal pochi secondi prima, non è verosimile per un videogiocatore esperto. Anzi, sarebbe la prova evidente del momentum, di un nodo curioso nella trama complessiva del gioco, simbolo di qualcosa che non quadra. Nell’immaginazione sopita di questi videogiocatori, infatti, la più forte prova di verosimiglianza di un videogioco deve essere la certezza che una squadra, sulla carta più forte, entri in campo e vinca sempre, a meno di variazioni molto trascurabili, mentre, per ulteriore paradosso, il videogioco finisce con l’essere più reale dei suoi videogiocatori prevedendo che, nelle proprie simulazioni, l’inatteso possa effettivamente capitare – come, tra gli altri, il Brasile del 1982, l’Olanda di Cruijff e persino il Napoli del 1987-88 possono eloquentemente testimoniare.

Poiché ogni ipotesi complottistica necessita sempre dei sacerdoti giusti per assurgere a teoria abbracciata da tanti, anche per corroborare le tesi dei complottisti del calcio virtuale c’è bisogno degli immancabili esperti. Per reclutarli, in questo caso, non si attinge a piene mani, come ci si aspetterebbe, al mondo dei tecnici – ingegneri informatici, amministratori di sistemi – ma a quello dei videogiocatori di vecchissima data. Meglio se non particolarmente vincenti. Qui entra in gioco il concetto prima anticipato di esperienza: essa infatti pare non venga acquisita dalle persone con lo studio e l’applicazione, ma venga concessa, come per grazia, dal tempo. Il partito dei ribelli contro il momentum annovera al suo interno coloro il cui curriculum è riassumibile in un secco “utilizzo videogame da sempre”, una sentenza che assomiglia molto da vicino a quella che si ascolta spesso nei sinedri di saggi del calcio che popolano i media, i quali lasciano precedere ogni propria frase da un inappellabile “Vivo nel calcio da quarant’anni”. Ad esempio, ascoltiamo da mesi molti commentatori indicare l’origine del rendimento altalenante di Hamsik alla sua posizione: Hamsik avrebbe giocato bene quando partiva più arretrato rispetto alla posizione ricoperta nel modulo attuale. Nelle partite in cui lo slovacco ha giocato meglio, gli stessi commentatori hanno detto che ciò fosse avvenuto in seguito ad un ravvedimento dell’allenatore. Ma quando, adoperando i risultati oggettivi di strumenti tecnologici, si è dimostrato che questa supposizione era incorretta (come ben argomentato da Andrea Iovene) chi propagandava l’idea dell’arretramento ha risposto con un secco e piccato: “Ma io lo so per esperienza“. Esperienza come grazia ricevuta.

La morale della favola è che vincere è difficile perché è difficile sopportare la sofferenza causata dalla sconfitta. E che la natura di tale sofferenza è anzitutto psicologica – ragione per la quale le sovrastrutture che costruiamo per limitare l’effetto delle sconfitte su di noi sono di natura psicologica. D’altra parte è stato quel vecchio saggio a dire: “Il calcio è prima di tutto un’avventura di psicologia collettiva”.
Raniero Virgilio

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