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Contro il fantacalcio e il suo principio di semplificazione del pallone

Contro il fantacalcio e il suo principio di semplificazione del pallone

Questo che segue è un breve excursus sulla complessità. Su quanto la potenza espressiva del calcio ne consenta una descrizione vivida ed esemplare. E su come la spinta dei media a semplificare le caratteristiche salienti di questo gioco rischi di trasformare l’opportunità dello spettatore di maturare attraverso questo sport in un pericoloso cortocircuito mentale. Il calcio, infatti, prima ancora di essere la famosa “metafora della vita”, è una sofisticata scuola della complessità, a disposizione di tutti.

Ma cos’è un sistema complesso? Possiamo definirlo come un insieme di elementi simili, ciascuno dei quali dotato di un proprio comportamento caratteristico, che interagiscono tra loro e si adattano a stimoli provenienti dall’ambiente esterno. Evolvendo nel tempo, un sistema complesso mostra, a livello macroscopico, comportamenti che non sono prevedibili dallo studio delle caratteristiche dei singoli elementi che lo compongono. Si dice che tali comportamenti emergono dal sistema, per indicare che non abbiamo strumenti sufficienti a prevederli.

I sistemi complessi sono ovunque. Attorno a noi. Ne siamo parte noi stessi. Ecosistemi, sistemi economici, partiti politici. E squadre di calcio. Certo, quale migliore definizione, infatti, per una squadra di calcio? Un insieme di individui che, per rispondere allo stimolo esterno a prevalere sull’avversario, cooperano tra loro e mostrano un comportamento emergente che noi denominiamo gioco, attraverso il quale cercano di raggiungere uno scopo comune detto vittoria. Studiare le caratteristiche di un sistema complesso ci aiuta ad analizzare il nostro modo di interpretare il calcio. E anche di piegarlo, spesso, ad alcune nostre bizzarre logiche perverse.

Tutti i sistemi complessi hanno una natura non lineare: sono composti di parti così strettamente connesse e dipendenti tra loro da risultare impossibile scomporli in sottosistemi più semplici che si possano studiare separatamente, se non al costo di commettere grossolani errori di previsione del comportamento globale. Studiare in modo isolato i quattro uomini di difesa di una squadra, ad esempio, trascurando completamente quale sia il centrocampo con cui essi debbano raccordarsi, potrebbe indurci in conclusioni imbarazzanti sull’efficacia di una squadra intera. Il mantra di Benitez – “Non mi piace commentare la prestazione del singolo ma quella della squadra” – non è un banale schermirsi, ma un insistere su questo fondamentale aspetto della non linearità di una squadra: non c’è nessun comportamento del singolo giocatore, o del singolo reparto, che possa spiegare in toto, o lasciar prevedere con certezza, il comportamento globale della squadra.

In aperto contrasto con questa visione sistemica e complessa del gioco, l’approccio corrente dei media va in larga parte nella direzione di semplificare tutti questi meccanismi per confezionare un prodotto facilmente spendibile sul mercato. Il linguaggio universale della semplificazione del calcio moderno è il cosiddetto fantacalcio. Il ruolo ricoperto nel panorama culturale da questo gioco e l’influenza che esso ha avuto nel ridefinire la percezione del calcio su scala planetaria, sono stati, a mio avviso, profondamente sottovalutati. Per i motivi che tenterò di spiegare.

Anzitutto, il fantacalcio è un gioco che finge di saldare un legame tra virtuale e reale attraverso un uso spregiudicato dei termini linguistici. Non solo suggerisce, già nel suo nome, un inscindibile legame di dipendenza con il gioco del calcio, ma si fonda su poche regole del tutto diverse eppure evocative di quel mondo: prevede un insieme molto limitato di possibili combinazioni di giocatori, chiamate “moduli”, ed un numero finito di nomi di giocatori da sistemare in una di queste combinazioni consentite. Il gioco si basa su un equivoco semantico molto sottile, ed ovviamente voluto: adoperare termini nel gioco virtuale che evochino la potenza del gioco reale, con lo scopo di dare l’impressione al fantallenatore di aver stabilito un ponte ideale che lo tenga connesso al manto erboso, ai pali e alle traverse, alle scarpette, le corse, i recuperi sulle fasce, senza spendere una sola goccia del proprio sudore. L’intera illusione è tenuta in piedi dalla sola comunanza dei nomi – nomi dei moduli, nomi dei giocatori, nomi del gioco.

Sfruttando il loro potere evocativo, il fantacalcio promuove l’idea che mandare a memoria i nomi di battesimo dei giocatori e quello delle squadre in cui militano sia la chiave di accesso alla conoscenza del gioco del calcio. Questa certezza è oggi diffusissima a tutti i livelli. I commenti sportivi, in tutte le sedi, si riducono all’avvilente sgranare rosari di numeri, date, codici, nomi di luoghi, nel disperato tentativo di accreditarsi una qualche competenza sul gioco reale agli occhi degli spettatori – come se conoscere a memoria gli articoli della costituzione ci potesse rendere tutti costituzionalisti.

Ma c’è di più. La peculiarità del fantacalcio è quella di essere un sistema formale con la presenza di un oracolo, ovvero di un agente esterno che viene interrogato in un preciso momento del processo per ottenere delle informazioni necessarie a portare a compimento la fantapartita. L’oracolo del gioco del fantacalcio sono – guarda caso – le pagelle dei giornali. Il voto al singolo giocatore è la misura della prestazione dell’atleta vero riportata sul copione dell’illusione fantacalcistica. Il cuore del gioco è in questo numero, compreso tra zero e dieci, che, a parte essere relativamente influenzato da pochissime grandezze misurabili oggettivamente – il numero di assist, di goal presi o fatti, di espulsioni e ammonizioni ricevute da ciascun fantaelemento – non è niente altro che una variabile tanto aleatoria quanto un lancio di dadi. Al punto che, se al posto di un cronista, a redigere le pagelle, ci fosse un generatore di numeri casuali opportunamente tarato, la differenza sarebbe impercettibile ai più. La pagella, privata di un suo racconto, è la riduzione estrema della complessità di una squadra in cenere intellettuale, laddove dovrebbe essere proprio il racconto a mettere in luce la non banalità dei legami tra gli uomini in campo, lo studio della interconnessione tra cause ed effetti, fino a dischiudere e lasciare emergere l’umano che c’è nel gioco e farlo diventare, in alcuni casi, letteratura.

Il fantacalcio, quindi, non e’ null’altro che una linearizzazione del calcio. E’ un gioco a sé stante, con regole diverse da quelle calcistiche e caratteristiche spesso contrarie, ma che illude il pubblico di essere amico del calcio. Dove sarebbe dunque il problema? Non rimane pur sempre un divertente ed innocuo gioco da fare in compagnia?

Divertente di sicuro. Ma non necessariamente innocuo. Specie quando il successo fantacalcistico induce il tifoso ad applicare gli stessi modelli sulle dinamiche del rettangolo di gioco reale. Qui avviene qualcosa di perverso. Il fantacalcio, infatti, a differenza del calcio, è un gioco lineare, e in esso vale il principio di sovrapposizione degli effetti. Significa che se prendo un fantaelemento della mia fantasquadra che fa venti gol a stagione, e lo affianco ad un altro che ne fa altrettanti, il risultato sarà un semplicissimo e rotondissimo quaranta goal a fantacampionato. Questa è una caratteristica saliente di un sistema lineare o, se volete, un colpaccio fantacalcistico. Ma è anche completamente falso nel mondo reale, nel quale anzi può avvenire l’esatto contrario: due attaccanti prolifici possono sovrapporsi e il bottino finale essere minore della somma dei due, o si può andare incontro a complesse redistribuzioni di centri stagionali, come abbiamo avuto modo di vedere a Napoli passando da un attacco con un bomber di riferimento quale era Cavani ad un sistema in cui quattro giocatori possono andare a rete in un gioco, per l’appunto, piu’ complesso. La grande aberrazione cui i fantagiocatori vanno incontro sta nell’iniziare a considerare il fantacalcio un buon modello di approssimazione del calcio. L’impatto culturale può essere significativo, ed ha in effetti come conseguenza la famosa pretesa dell’acquisto del top-qualcosa (top-player, top-allenatore, top-direttoresportivo), per cui se ti servono dieci gol in più a stagione basta comprare un attaccante che li faccia, mentre se te ne servono dieci in meno subiti basta prendere un portiere con i parametri opportuni. Funziona nella fantasquadra, dovrà funzionare necessariamente in una squadra. Questo riduzionismo è molto più pericoloso di quanto si pensi, perché una volta che il tifoso è convinto della bontà del suo modello mentale, non riesce più a rinunciarvi. Sara la realtà a doversi adeguare. Ad ogni costo.

Infine, essendo esclusivamente dipendente dai risultati, il fantacalcio instilla l’idea che solo essi contino, che il tema centrale del gioco sia il giudizio insindacabile dettato da un voto, e che debba quindi esistere un obbligo morale a perseguire la vittoria – “devi vincere”. Quando questo cortocircuito si è completato, ed il risultato sale sul trono, nasce lo sprezzo della bellezza che è insita nella complessità del processo e nell’eleganza della sfida titanica di modellarlo nel vivo di un gioco.

Il fantacalcio non è l’origine del male del calcio. Ma il suo successo ne è un sintomo. Il potere seduttivo della semplificazione è molto potente. Nessuno di noi è completamente sordo al richiamo della soluzione ovvia e a portata di mano, del brivido di sentirsi primo in una fantaclassifica fatta su misura per le nostre illusioni – tutti noi siamo stati almeno una volta Pinocchio nel Campo dei Miracoli, a vegliare sulla pianta degli zecchini d’oro. Solo che, alla nostra età, si presume che il libro di Collodi lo si sia letto tutto.
Raniero Virgilio

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