ilNapolista

Leggere il libro di Montieri e ritrovarsi a teatro a vedere lo scudetto del Napoli

La stagione del Napoli nel racconto del poeta, è una costola delle nostre esistenze. È un libro che tocca corde nascoste

Leggere il libro di Montieri e ritrovarsi a teatro a vedere lo scudetto del Napoli

Leggere il libro di Gianni Montieri sul terzo scudetto del Napoli è come andare a teatro. Ci si siede e ci si lascia trascinare dalle emozioni, dalle parole e dalle immagini che fanno da sfondo allo spettacolo, alla recitazione. Anche se le immagini non ci sono, ovviamente. È un libro. Eppure sono lì, palpabili. È un viaggio, morbido, caldo, commovente, intimo. Che parte da lontano, dal 3 novembre 1985, gol di Maradona alla Juventus, quello su punizione a due in area di rigore. E si conclude col gol scudetto di Osimhen a Udine. Ma non è solo un libro sul Napoli. Sullo scudetto. Si intreccia la vicenda calcistica con quella personale. E noi lo vediamo, Montieri, recitare sul palco il passaggio sul padre che gli insegnò il tiro all’ungherese. Il padre, tifoso del Napoli, che non c’è più.

La stagione del Napoli nel racconto di Montieri è una costola delle nostre esistenze. È un libro che tocca corde nascoste. Attento, come sempre Montieri, a non fare ghirigori con le parole. Essenziale. Non una parola in più, neanche una in meno. Noi lo abbiamo vissuto come quelle puntate di Buffa in cui c’è la musica a far da sottofondo alla narrazione. Salta da un protagonista a una partita, coglie un dettaglio che gli ricorda uno dei tanti scrittori che ha amato. Perché Montieri, da sempre, si sofferma essenzialmente su quel che gli piace. E lui trova del bello, e lo racconta, sia in Moser sia in Saronni. E alla fine ti ritrovi a dargli ragione. È un libro da custodire, oltre che da leggere. Il libro è “Il Napoli e la terza stagione”, editore 66thand2nd.

Qui abbiamo pensato di riportare alcuni passaggi. A noi è piaciuto particolarmente quello su Insigne. Rende la visione della vita di Gianni Montieri.

Lo scudetto

Quando il Napoli ha segnato non credo di aver detto nulla, però ho sentito il cuore che accelerava i battiti e ho pensato questo è il pallone, una cosa semplice, anche stupida se vogliamo ma che ci accompagna tutta la vita. Quando Osimhen ha calciato e poi ha segnato ho pensato a mio padre, a quando mi ha insegnato a calciare nel suo modo preferito, quello del tiro all’ungherese. Quel tiro è un fatto di famiglia, è il nostro modo di calciare, prima lui, poi io.

Spalletti

La grammatica perfetta di Spalletti non sta nelle frasi simili a stralunati haiku che a volte non comprendiamo ma si traduce in Kim che anticipa l’ennesimo attaccante, esce palla al piede, appoggia a Lobotka, da questi ad Anguissa, da lui a Kvara, tocco indietro a Mario Rui, cross di prima intenzione, stacco di Osimhen, gol. Questa è l’analisi del periodo del Napoli, la lingua di Luciano Spalletti. Un uomo che – riconosciamogli qui un ultimo talento, e non certo il meno significativo – ha capito la città sena diventarne ostaggio, senza esserne preda.

Osimhen

Somiglia a una favola Osimhen, a un racconto, a una poesia, ha molto a che fare con la letteratura, ma è tutto ancora da scrivere, è troppo veloce, non basta raccontarlo in presa diretta, bisogna tentare di immaginarlo nel momento successivo, nel tempo a venire. Quale e come sarà il prossimo gol, è questo il compito dello scrittore, del giornalista, del tifoso, indovinare quel tiro futuro, quel colpo di testa che parte appena più sotto di una nuvola, non costretto da quella gravità che frena gli altri.

Ciro Esposito e Insigne

In quella serata irreale e tremenda, poi costata la vita a Ciro Esposito. Io di quella notte assurda ricordo un ragazzo ferito (e poi morto. Ucciso da un fascista) e poi, più sfumati, ricordo i due gol di Insigne segnati nei primi diciassette minuti. Quella sera gli ho voluto bene e ho voluto bene a tutti quelli che hanno giocato quella partita. I non vincenti del Napoli. Ma quello non perdonato è Insigne, lui soltanto.

Insigne spariva. Ma allora spariva pure Hamsik, sparivano Mertens, sparivano tutti, perfino nell’anno dei 91 punti, perché poi hanno vinto gli altri. (…) Non gli si perdona di non essere diventato un fuoriclasse assoluto. Ovvero di non essere Zidane, di non essere Messi. Insomma, di non essere un «talento generazionale». Non ci siamo accontentati di avere un grande giocatore.

De Laurentiis

Un uomo che non brilla per simpatia, ma sicuramente è capace di amministrare un patrimonio, un uomo che ha commesso diversi errori ma li ha commessi soprattutto a livello comunicativo. Non è mai stato molto amato in città, fino a questa stagione, naturalmente – vinci e ogni cosa cambia.

Politano

Lo devo confessare, Matteo Politano appartiene alla categoria di calciatori che non mi piacciono. Politano corre e dribbla quasi sempre a testa bassa e – molto spesso – non ha la lucidità per l’ultimo pensiero che poi vuol dire l’ultimo passaggio. Resta un modello di giocatore non particolarmente amato da me anche quest’anno, ma in parte mi sono dovuto ricredere, quantomeno osservando il rendimento, i decisi miglioramenti, l’impegno costante (che in verità non è mai mancato). Politano è un altro giocatore rispetto al periodo di Gattuso, questo significherà pur qualcosa. Spalletti è riuscito a limitarne i difetti, a mostrargli che il gioco di squadra è tutto.

Meret

I calciatori e l’allenatore del Napoli si fidano ciecamente di Alex Meret e noi con loro. Gli attaccanti avversari, davanti a Meret, sembrano il protagonista di Zero K di DeLillo che non può far altro che sbagliare porta.

 

ilnapolista © riproduzione riservata