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Padovano: «Chi mi restituirà 17 anni di vita? È un miracolo che non mi sia ammalato o sia impazzito»

Alla Repubblica: «Senza la Cassazione sarei ancora dentro. Alle udienze i giudici ogni tanto si addormentavano. Ho venduto tutto ciò che avevo»

Padovano: «Chi mi restituirà 17 anni di vita? È un miracolo che non mi sia ammalato o sia impazzito»

Sulla Repubblica Maurizio Crosetti intervista Michele Padovano. Due giorni fa è stato assolto, dopo 17 anni, dall’accusa di traffico di droga. Una storia assurda. Ha perso 17 anni di vita che nessuno mai gli restituirà.

Oggi Padovano ha 56 anni. Con la Juventus ha vinto una Champions e uno scudetto. Ha giocato anche a Cosenza, Pisa, Napoli, Genoa, Reggiana, Crystal Palace, Metz e Como.

Racconta la sua terribile esperienza. Quanta vita c’è, dentro 17 anni?

«Tanta, troppa. Quasi tutta. E non torna indietro. Chi me la rende? Ogni mattina mi svegliavo con l’ossessione, e poi restava sempre con me: fine pena mai. È un miracolo se non impazzisci o non ti ammali di brutto».

Padovano racconta il giorno in cui lo arrestarono.

«Dopo una pizza con gli amici. Mi bloccarono due volanti, gli agenti armati, pistole in pugno. Tutti in borghese. Nessuno parlava, nessuno mi spiegava. La spada mi è entrata in testa in quel momento e c’è rimasta una vita. Mi portarono subito in caserma a Venaria: le foto segnaletiche, le impronte digitali. Poi mi diedero i trecento fogli dell’ordinanza: “Tieni, studia e capirai”. Ma io non capivo proprio niente. Questi sono pazzi, pensavo».

Padovano racconta l’umiliazione subita.

«Con le manette ai polsi provi dolore, senti freddo e vergogna. Nella notte mi trasferirono a Cuneo sul blindato, si sta seduti dentro una specie di gabbia. Mi scappava la pipì, non volevano farmela fare. Alla fine ci fermammo in un autogrill semivuoto, c’era solo una famiglia, mi guardarono strano. La mia forza è nata lì. Dimostrerò di essere innocente, mi ripetevo, servisse anche tutta la vita. Mangiavo solo mele».

Poi il carcere speciale di Bergamo.

«La mattina, sveglia alle 6 con i manganelli che sbattono sulle sbarre, come nei film. Allenavo la squadra dei detenuti, e la domenica la partita: meraviglioso. Dalla cella vedevamo il campetto d’erba, che bello, pensavo, però era quello delle guardie. Il nostro, solo terra battuta».

In quella cella Padovano vide la finale dei Mondiali.

«I miei amici in campo, Del Piero, Ferrara che aiutava Lippi, Cannavaro che a Napoli mi chiedeva la macchina se doveva uscire con una ragazza, e io in gabbia. Per fortuna c’era la tivù. Le guardie mi chiedevano: “Michele, che dici, si vince?”» .

Poi i domiciliari.

«Senza la Cassazione sarei ancora dentro. Alle udienze di primo grado, uno dei giudici ogni tanto si addormentava».

Se è riuscito a sopravvivere, dice, lo deve solo alla famiglia, che gli è rimasta sempre accanto. Gli amici, invece, no. Tranne due.

«Spariti quasi tutti. Non Gianluca Presicci che giocava con me a Cosenza, non Gianluca Vialli che era meraviglioso e mi ripeteva “Michi, non mollare un cazzo!”. Il mio leader. Venne a testimoniare, provarono a tirare dentro pure lui. Padovano, Vialli e la cocaina: ma quando?».

È vero che ha perso tutto? Padovano:

«Sì. Ho dovuto vendere quello che avevo, 17 anni sono lunghi. Mi sono reinventato, prima ho preso un bar, poi un parco giochi per bambini ma il Covid ci ha fregato. Quando mi arrestarono avevo 38 anni, ero un dirigente del calcio. Ora vorrei che attraverso il lavoro mi venisse restituito un po’ di quello che ho perduto. Sono un uomo di campo e vorrei ricominciare da lì, va bene anche come magazziniere».

Avrà pur chiesto aiuto a qualche vecchio amico, no?

«Soltanto porte chiuse: spariti tutti. Negli sguardi degli altri vedevo il pregiudizio, il sospetto, pensavano fossi Pablo Escobar e non un errore giudiziario».

C’è una parola per definire tutto questo?

«Solitudine».

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