ilNapolista

La figlia di Carlo Rambaldi: «Per gli occhi di E.T. prese spunto dal nostro gatto himalayano»

A La Repubblica: «Per il collo allungato e la silhouette del corpo prese spunto dal dipinto di alcune figure femminili ferraresi. In E.T. c’è molto di lui».

La figlia di Carlo Rambaldi: «Per gli occhi di E.T. prese spunto dal nostro gatto himalayano»

Su La Repubblica un’intervista alla figlia di Carlo Rambaldi, Daniela. Ricorre il quarantennale del capolavoro di Steven Spielberg, E.T.

Daniela Rambaldi racconta il rapporto che aveva con il padre.

«Avevamo un rapporto di simbiosi assoluta. Ricordo bene non tanto il periodo italiano quando collaborò con Dario
Argento, ma quello americano. Al pomeriggio, uscita da scuola, mia mamma mi portava nel suo laboratorio. Papà viveva letteralmente in quel luogo, sembrava non prendersi mai una pausa. Creava continuamente, anzi, quando usciva portava sempre con sé il taccuino, quasi fosse un ingranaggio. Il suo tavolo di lavoro era tutto bruciacchiato,
perché quando iniziava a disegnare accendeva la sigaretta, la poggiava, quella si consumava… e dopo se ne accendeva un’altra».

Rambaldi realizzò E.T. in sei mesi, anche se a Spielberg ne aveva chiesti 12.

«Papà chiese dodici mesi per realizzare il tutto, dovette invece realizzarlo in sei mesi consegnandolo addirittura tre
giorni prima. Lavorò incessantemente giorno e notte».

Proprio Daniela fu una delle prime persone a vederne la nascita.

«Quando realizzò la prima scultura in creta, di circa trenta centimetri, chiamò me e i miei fratelli chiedendoci un parere. Io avevo 11 anni. Sulle prime non mi piaceva, quando però l’ha fatto girare su un cavalletto mi ha fatto ridere il suo fondoschiena, ricordava un po’ Paperino. ‘Brutto, ma simpatico’, pensai, ma non faceva affatto paura. Quella è stata la chiave del successo».

Dove trovò l’ispirazione?

«Per gli occhi la prese dal nostro gatto himalayano, per il collo allungato e la silhouette del corpo da un suo dipinto degli anni 50, Donne del Delta, riprendendo alcune figure femminili ferraresi. Ha messo tutto insieme, ovviamente seguendo i tanti input di Spielberg. C’è molto di lui».

È mai andata sul set?

«Una volta, ma solo per accompagnare papà. Il set era blindato, nessuno poteva entrare se non gli addetti e il cast. E.T., alla fine di ogni ripresa, veniva chiuso in una cassa con un lucchetto, riportato nel laboratorio di mio padre, che ormai ne era diventato il custode. Tornava a “girare” il giorno successivo. Spielberg voleva mantenere ossessivamente il segreto, senza svelare nulla».

 

ilnapolista © riproduzione riservata