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La figlia di Carlo Rambaldi: «Da bambina mi smontava le bambole. Per creare E.T. non dormì per sei mesi»

Daniela Rambaldi a Sette: «Per King Kong sparì per un anno. A scuola non mi piaceva dire che fabbricava mostri, dicevo che costruiva giocattoli per adulti»

La figlia di Carlo Rambaldi: «Da bambina mi smontava le bambole. Per creare E.T. non dormì per sei mesi»

E.T. compie 40 anni e Sette, settimanale del Corriere della Sera, intervista Daniela Rambaldi, figlia di Carlo, l’artigiano-artista inventore di effetti speciali che diede vita alla creatura che diventò il protagonista del film di Spielberg.

«Il telefono squillò poco prima di mezzanotte nella nostra casa di Encino, in California. Dall’altra parte del filo, la voce implorante di Spielberg, con cui papà aveva già lavorato per Incontri ravvicinati del Terzo Tipo. Diceva: Carlo, dobbiamo vederci, I have a big problem. Steven non era contento del team americano: il personaggio non era empatico, non suscitava tenerezza. Aggiunse: so che ti sto chiedendo la Luna, amico mio, ma devi aiutarmi. Papà buttò giù due schizzi e in un amen creò il prototipo che poi mi sottopose. Non c’era tempo da perdere. La produzione cominciava a storcere la bocca. Papà non dormì più per sei mesi. Lavorava 18 ore al giorno, weekend compresi».

Alla fine sottopose il suo prodotto alla figlia Daniela, allora 11enne.

«Mi chiese: ‘Che ne dici, Daniela?’. Mi trovai davanti 35 centimetri d’alieno, con il fondoschiena di Paperino, la testa quadrata e gli occhioni di un cerbiatto. L’esserino mi incuriosiva. Tirai fuori un commento diplomatico: hummm, bruttino ma simpatico. Calcai sull’aggettivo simpatico e papà capì che aveva centrato il bersaglio».

Rambaldi era affascinato dal movimento, racconta la figlia:

«Spesso ci chiedeva cose come: pensa se quel candelabro improvvisamente si mettesse a ballare. Quando ero bambina, prendeva le mie bambole e le smontava. Il suo atelier di Roma, a Monteverde, sulla Gianicolense, era un open space in un seminterrato con una porticina e una saracinesca. Aspettavo mamma in auto, impaurita. Quella, per me, era la fabbrica dei mostri. Papà portava sempre con sé un grosso bloc notes. Disegnava, prendeva appunti, fissava idee. Era l’epoca di Profondo rosso. Poco prima c’era stata la grande delusione del Pinocchio di Luigi Comencini: la produzione aveva chiesto un burattino meccanizzato che poi fu utilizzato all’insaputa dell’autore. Seguì una lunga causa. Ho sempre pensato che E.T. sia stata la sua rivincita».

Fu lui a creare anche King Kong, per Dino De Laurentiis.

«Praticamente, non lo vedemmo più per un anno. De Laurentiis gli consegnò un intero padiglione degli studios. I tecnici americani lo guardavano con sospetto. Papà aveva un modus operandi rinascimentale, senza orari e ruoli definiti. E non parlava inglese. Per farsi capire usava il dialetto ferrarese».

Non era facile dire ai suoi compagni di scuola qual era il lavoro di suo padre, per Daniela.

«Allora ero molto timida. A scuola, quando si spargeva la voce che ero la figlia di chi aveva inventato E.T. mi sentivo in imbarazzo. Ancora di più se c’era da fare un tema sul mestiere di papà. Non mi piaceva dire che fabbricava mostri. Scrivevo: costruisce giocattoli per adulti».

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