Tardelli: «Il sogno dei genitori era il posto fisso. Mia madre mi vedeva troppo magro per il calcio»

A Libero: «Diciamolo senza ipocrisie, un conto è vincere il Mondiale battendo Brasile e Argentina, un altro battendo Ucraina, Australia e in finale ai rigori»

Tardelli

Bildnummer: 01529545 Datum: 11.07.1982 Copyright: imago/Sven Simon Torjubel Italien: Torsch¸tze Marco Tardelli (re.) und Gaetano Scirea; Endspiel, Vdia, quer, Jubel, jubeln, Schrei, schreien, Jubelschrei, Freudenschrei, Emotionen, Faust, F‰uste Aufmacher Weltmeisterschaft 1982, Nationalmannschaft, Nationalteam, Nationaltrikot, L‰nderspiel, Finale Madrid Dynamik, Gl¸ck Begeisterung, Freude, Fuflball WM Herren Mannschaft Gruppenbild optimistisch Aktion Personen Image number 01529545 date 11 07 1982 Copyright imago Sven Simon goal celebration Italy Scorer Marco Tardelli right and Gaetano Scirea Final Vdia horizontal cheering cheer shout screaming cry of joy Scream of joy Emotions fist Fists Highlight World Cup 1982 national team National team National jersey international match Final Madrid Dynamics Happiness Enthusiasm happiness Football World Cup men Team Group photo optimistic Action shot Human Beings

A 40 anni dalla finale con la Germania che regalò all’Italia di Bearzot la vittoria del Mondiale di Spagna, nel 1982, Libero intervista Marco Tardelli. Il suo urlo dopo il gol è rimasto storico. Lo spiegò in un’intervista a Repubblica qualche settimana fa: fu la risposta ai suoi che non lo volevano calciatore. Lo ribadisce.

«Mi è passata davanti tutta la vita. Eravamo arrivati in cima al mondo e avevo dimostrato che avevo ragione a insistere, anche quando i miei genitori non volevano che giocassi. Allora il sogno era il posto fisso, per mio padre. E mia madre era preoccupata che non ce la facessi perché ero troppo magro. Sperava nella mia testa più che nel fisico, mi voleva intellettuale».

Perché da allenatore è andata meno bene che da calciatore?

«Meglio di come mi è andata sul campo non poteva andare. Ho vinto qualcosa anche in panchina, ma io sono cresciuto in un calcio diverso, dove l’allenatore comandava davvero; quando è arrivato il mio turno da mister, non era più così. Ora comandano altri».

Su Bearzot:

«Bearzot andrebbe commemorato. Non basta dedicargli una piazza, bisogna ritagliarli qualcosa di permanente nella memoria storica del nostro sport. Era un padre per i giocatori, amava educarli e farli crescere, aveva una leadership straordinaria. Anche se era molto severo, ti chiamava, ti guardava negli occhi e ti chiedeva le cose, non potevi mentire né sgarrare. Ma poi, se entravi nel gruppo, non ti mollava mai. Lo fece anche con Paolo Rossi, prima di convocarlo in Nazionale, contro il parere di tutti, al rientro dai due anni di squalifica».

Rimpianti come calciatore?

«Uno solo: non aver vinto la Coppa Campioni».

Ma l’hai vinta…

«All’Heysel non è stata una partita. Non dovevamo giocare, per rispetto dei morti. Quel giorno è stata la sconfitta del calcio, perciò non aveva senso incoronare vincitori».

Perché la vittoria del 1982 ha fatto più storia delle altre?

«Perché non vincevamo dall’anteguerra e perché, diciamolo senza ipocrisie, un conto è rifilare tre gol al Brasile di Zico e schiantare la Germania in finale, altro è eliminare Australia e Ucraina e prevalere ai rigori. Noi avevamo fatto fuori tutti i più forti. Il modo conta, anche se nel calcio la vittoria poi cambia tutto».

Si dice che la vostra vittoria lanciò l’Italia in tutti i campi…

«Allora oggi ne servirebbe un’altra. Penso che per tornare a correre gli italiani debbano smetterla di lamentarsi di tutto e di raccontarsi come i peggiori del mondo. Come insegna Bearzot: se vuoi vincere devi credere in te stesso e non ascoltare troppo le critiche».

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