A Repubblica: «Allora il calcio era diverso, oggi l’informazione ha una sola regia, niente è spontaneo, tutto è studiato e controllato».
Emanuela Audisio intervista Marco Tardelli per La Repubblica. Quarant’anni fa il suo urlo diventò un simbolo della vittoria dell’Italia ai Mondiali.
«Era l’urlo di un traguardo raggiunto con sacrifico, contro tutti. E sì, ho corso come un pazzo. Pensavo ai miei: gliel’ho fatta vedere, mi dicevo, loro che non volevano giocassi a pallone, ecco, vedete, ho vinto, ce l’ho fatta, guardami papà che ti svegliavi alle sei per andare a lavorare, che hai buttato via la mia prima maglia, tanto poco ti importava, e anche tu mamma che mi preferivi sapiente a scuola. Era il mio fantastico riscatto. Guardatemi tutti voi, convinti non avessi il fisico».
Un urlo che durò solo 7 secondi, ma che ancora ricordano tutti.
«Ne sono orgoglioso, non mi ha mai stancato o reso prigioniero. Si è come congelato. Resta la mia pagina più bella, ha cancellato ogni prima e ogni dopo, appartiene ad un’altra epoca, ma è nella mia vita, anche se l’ha fatta sparire».
Racconta il rapporto che c’era, allora, tra i giocatori e la stampa.
«Allora con i giornalisti si parlava nello spogliatoio e fuori, si discuteva, si litigava, si faceva pace, e poi si ricominciava. Il calcio non era un prodotto tutelato, nessuno di noi aveva uno staff personale o un addetto stampa. Oggi l’informazione ha una sola regia, niente è spontaneo, tutto è studiato e controllato. Nessuno si permetterebbe alla partenza di un’avventura di offendere o di andare giù pesante con squadra e giocatori. Allora capitò. Come fai a stare zitto quando il tuo presidente federale dice che torneremo presto a casa e quando quello della Lega dichiara che non vede l’ora di prenderci a calci nel sedere? Altri tempi».
Parla di Bearzot:
«Era una persona perbene, potevi criticarlo, non offenderlo. Quando litigò con un giornalista era perché riteneva che da ospite in un ritiro, in casa di altri, hai il dovere di essere educato. E quando dissero che Cabrini e Rossi dormivano insieme, noi ci ridevamo, ma lui si rabbuiò. Si chiedeva: non pensano ai parenti e ai figli rimasti a casa? Su certi temi aveva una sua morale, impazziva se toccavano la famiglia».
A quei tempi la Nazionale aveva al seguito grandi scrittori come Brera, Arpino, Soldati, Del Buono, Bene. Tardelli si pente di aver insultato Brera, una volta.
«Io ancora mi rimprovero di avere insultato Brera. Scriveva che avevo le gomme sgonfie. Lo vidi entrare nel bar del ritiro a Pontevedra, mi alzai dicendo ad alta voce: «Vado via, sento puzza di merda». Non dovevo, ho sbagliato, non ho mai avuto modo di scusarmi. Mi resta il rimpianto, non mi assolvo. Anche dopo il gol alla Germania mi sono fatto il segno della croce, era mia abitudine chiedere perdono per quello che mi usciva dalla bocca».
La Audisio gli chiede se sia stato più iconico il successo al Mundial 1982 o quello del 2006. Non ha dubbi: il primo. E aggiunge:
«E ci servì per chiedere alla Juve un adeguamento di stipendio: perché gli stranieri che arrivavano, Platini e Boniek, dovevano prendere più di noi campioni?».
A Madrid nessuna avvisaglia?
«Macché. La sera del trionfo l’ho passata nel corridoio dell’albergo a parlare con Scirea, Rossi e Cabrini. La prima notte di quiete dopo tante tempeste. E ora ci chiedevamo, che si fa? È vero che dopo un grande pieno avverti un profondo vuoto. Non potevamo immaginare il chiasso che stava montando in Italia. E nemmeno che da eroi ci saremmo trasformati in delinquenti, anzi in evasori fiscali. Nell’86 ero in vacanza con Zoff a Punta Ala quando mi arriva la convocazione giudiziaria davanti a un magistrato a Milano. Rispondo: tra due giorni finisco le vacanze, potete aspettare? No, deve andare subito è la risposta. Il magistrato mi aspetta con le parole: confessi, Zoff ha già parlato. Ma confessare cosa? Ci ritirarono anche i passaporti, a tutti i 22 giocatori, come se fossimo pronti ad evadere all’estero. Eravamo sotto accusa per il premio ricevuto dallo sponsor nel viaggio di ritorno e rinviati a giudizio anche per non aver denunciato i soldi incassati nella dichiarazione dei redditi presentata nell’83. Fummo prosciolti con
formula piena nell’89. Questo non è cambiato: se un manager guadagna milioni è perché li merita, i soldi degli sportivi invece sembrano sempre ingiusti e esagerati».
Ancora su Bearzot.
«Meriterebbe oggi un grande ricordo, invece è trascurato. Parlano più di noi che di lui. Non è giusto.
Dopo 40 anni cosa vorrebbe?
«Che quel successo servisse non a fare melassa, ma a capire che lo sport con le sue emozioni può raccontare l’identità e le speranze di una nazione. Perché a scuola non si studia la storia dello sport? Sarebbe un romanzo interessante, che ci appartiene, difficoltà comprese. A Belfast hanno titolato l’aeroporto a George Best, grandissimo, anche senza titolo mondiale. Da noi, per i nostri campioni niente, a Fiumicino nemmeno una foto. Chiedo: perché all’esame di maturità non dare un tema sul significato di quel successo ’82? Sarebbe un modo per far riflettere: lo sport cambia tanti risultati, non solo quello della partita».