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Senza Insigne e Mertens, il Napoli è finalmente libero di essere diverso

Le loro caratteristiche e il loro peso obbligava Spalletti a giocare in un certo modo. Ora il Napoli può essere verticale, e guardare al futuro senza fantasmi

Senza Insigne e Mertens, il Napoli è finalmente libero di essere diverso
Napoli 05/05/2019 - campionato di calcio serie A / Napoli-Cagliari / foto Insidefoto/Image Sport nella foto: Lorenzo Insigne-Dries Mertens

È arrivato il momento

Siamo alla metà di luglio, sono passati quindici giorni dalla scadenza dei contratti di Lorenzo Insigne e Dries Mertens con il Napoli. Il primo ha accettato l’offerta di Toronto, franchigia MLS, e si è già trasferito in Canada. Il secondo è ufficialmente svincolato, anche se alcuni esperti di mercato sostengono che ci sia ancora la possibilità che rinnovi il suo contratto e quindi possa tornare a vestire la maglia del Napoli. La realtà del momento, però, dice che Mertens è un giocatore che non ha più alcun legame con la sua vecchia società. E che lo staff tecnico del Napoli, a Dimaro, sta preparando la nuova stagione senza di lui. Insomma, è arrivato il momento di iniziare a pensare al Napoli senza Insigne e Mertens. Di immaginare come questa squadra possa – anzi: debba – evolvere, dal punto di vista tattico, in funzione di questi due addii.

Il primo discorso da fare è di tipo puramente antropometrico: Lorenzo Insigne è alto 1,63 m secondo Wikipedia e Transfermarkt; Dries Mertens, invece, è alto 1,69 m, sempre stando ai dati dei due siti-archivio più utilizzati e affidabili per quanto riguarda le misure fisiche dei calciatori. Parliamo quindi di due atleti dal baricentro basso, perciò inevitabilmente inclinati verso un calcio da giocare in spazi stretti, raccolti, in porzioni di campo in cui il pallone viaggia in maniera più precisa e veloce, in cui i contatti fisici sono ridotti. Il fatto che entrambi abbiano un’eccellente tecnica di base alimenta questa loro tendenza, fa sì che amino dialogare palla a terra tra di loro in fazzoletti di terreno a dir poco circoscritti. Sono bravi a fare questo, sentono che quello è il loro contesto ideale, ed è certamente così.

Cosa è successo in passato

Del resto ne abbiamo le prove: quando Insigne e Mertens sono stati messi nella condizione di giocare con tanti altri compagni in un contesto tattico non solo sistemico, ma addirittura fondato sul primato assoluto del possesso palla, della riduzione degli spazi, hanno espresso il meglio del loro repertorio. Ci riferiamo ovviamente al biennio vissuto con Maurizio Sarri in panchina dopo l’addio di Higuaín, quando il Napoli costruito da Benítez e Bigon e rifinito dal tecnico toscano e da Giuntoli aveva un organico fortemente identitario, con tantissimi calciatori – Reina, Albiol, Jorginho, Ghoulam, Mário Rui, Jorginho, Zielinski, Hamsik, Milik e Callejón, anche se lo spagnolo in misura minore rispetto ai compagni – che si esaltavano in una squadra votata al dominio del ritmo attraverso il dominio della palla, che disordinava le difese avversarie con lunghe e sofisticate serie di passaggi.

Memories

Col tempo, cioè per sopraggiunti limiti di tempo, quella squadra si è dissolta. Molti giocatori sono stati ceduti perché hanno deciso di andar via, altri si sono lentamente logorati e svalutati, e quelli che sono arrivati per sostituirli non avevano il loro stesso profilo. Fisico e quindi anche tecnico. Insigne e Mertens sono stati invitati – soprattutto da Ancelotti, poi anche da Spalletti – ad adattarsi a questo cambiamento in atto, a un Napoli più lungo in campo, meno orientato al possesso. Più diretto, più verticale. Meno identitario, certo, ma anche filosoficamente più vicino ai nuovi elementi in rosa.

Qui però torniamo al primo punto, quello relativo alle misure antropometriche: durante quegli esperimenti di cambiamento, Insigne e Mertens avevano la stessa statura e lo stesso fisico, quindi hanno continuato a preferire il loro calcio. A pretenderlo, in qualche modo. Attenzione: non stiamo dicendo che non siano stati dei professionisti, che non abbiano provato a convertirsi a qualcosa di diverso. Stiamo dicendo che, per loro, era praticamente impossibile pensare di giocare in un altro modo. Non possedevano gli strumenti per farlo.

Il calcio di oggi

Dal punto di vista tattico-strategico, il calcio contemporaneo è un gioco molto più sequenziale rispetto al passato. Tutti i calciatori in campo sono legati ai loro compagni, i compiti sono fluidi, così come le attribuzioni con e senza palla. E le tendenze evolutive sono chiare: il gioco basato sul possesso esasperato – per intenderci: quello reso vincente da Aragonés, Guardiola e Del Bosque a cavallo tra gli anni Zero e Dieci, e che ha ispirato molti allenatori degli ultimi anni, tra cui Sarri – ha avuto e ha ancora un’enorme influenza sull’intero mondo del calcio. Solo che nel frattempo quella generazione di calciatori, quella degli Xavi, degli Iniesta, dei Messi, dei Fàbregas e dei David Silva, è sfiorita.

Al loro posto sono arrivati dei giocatori molto più forti fisicamente, anche nelle stesse squadre di Guardiola. Che, viene da dire non a caso, ha inserito da poco Haaland nel suo telaio, che già ai tempi del Bayern Monaco dovette diluire il suo gioco per adattarlo a elementi come Müller, Robben, Lewandowski. È la stessa identica dinamica che ha vissuto il Napoli. Solo che De Laurentiis ha pensato per anni che quell’approccio e quei giocatori dovessero essere eterni, mentre invece erano già stati superati dai loro stessi compagni. Dai Di Lorenzo, dai Lozano, dagli Osimhen, dagli Anguissa. In virtù di tutto questo, il Napoli è diventato ibrido. Per non dire inconciliabile. Mentre c’erano dei nuovi giocatori che parlavano una lingua ormai antica, altri invece invocavano qualcosa di nuovo.

Presente e futuro

È qui, in questo punto, che Spalletti – quando eravamo ormai alla fine di questa convivenza così complicata – ha dovuto far fronte e quindi risolvere degli equivoci. Degli enormi equivoci. Tattici, ma anche strategici e persino logistici, cioè di pura progettazione del lavoro. Per dirla in maniera semplice, anche brutale: come si mettono insieme due anime così distanti? Come si allenano giocatori così lontani tra loro come Osimhen e Insigne, come Mário Rui e Anguissa, come Petagna e Mertens? La colpa, ovviamente, sta a monte. È di chi ha progettato questa rosa senza progettarla davvero. È di chi ha scelto di non scegliere: De Laurentiis, Giuntoli, i loro collaboratori.

I tempi non sono casuali

Ora, però, il Napoli è un po’ più libero. Insigne e Mertens non erano un peso o una catena in quanto Insigne e Mertens, piuttosto per le loro richieste tattiche. Basta pensare, per esempio, al fatto che il Napoli abbia dovuto schierare costantemente Mário Rui in questi anni perché Insigne, per essere sfruttato a dovere, aveva bisogno di un terzino in grado di servirgli certi passaggi dosati in un certo modo – non a caso è stato proprio Spalletti a definire Mário Rui come «un professore del possesso palla».

Certo, dietro la titolarità del portoghese c’era anche la scelta – scellerata, per non dire incomprensibile – di non investire nel ruolo di laterale basso a sinistra perché in rosa era presente Ghoulam, ovvero un calciatore che da anni non è più tale. Ma non sfugga che l’arrivo di un terzino come Mathias Oliveira, con un fisico e con caratteristiche completamente diverse rispetto a quelle di Mário Rui, sia stato finalizzato proprio all’indomani dell’addio di Insigne.

Un discorso molto simile si può fare con e per Dries Mertens, un attaccante associativo che raramente attacca la profondità e che perciò ha bisogno di essere servito tra le linee. Magari da una mezzala da 4-3-3 o comunque da un centrocampista in grado di immaginare e attuare questo tipo di passaggi. E ora, domanda retorica: quando si concretizza il suo addio? Risposta: quando un allenatore che ama e sa far praticare un calcio verticale verifica che Osimhen sia un fenomeno in questo senso e allora punta tutto su di lui. Insomma: nulla succede per caso. E neanche i tempi sono casuali.

Ora il Napoli è libero

È evidente come ora il Napoli sia finalmente libero di essere diverso. Di coltivare un altro tipo di fase offensiva. Più fisica, più immediata e verticale. Meno barocca e improntata al possesso. Ne abbiamo avuto qualche assaggio nella prima amichevole stagionale contro l’Anaune, anche se in questo caso il valore dell’avversario consiglia di scoraggiare in partenza qualsiasi analisi tattica: è stato un monologo del Napoli, la squadra di Spalletti è stata costretta a tenere sempre il pallone.

Napoli-Anaune

Anche in una gara del genere, però, Kvaratskhelia ha dimostrato di essere un calciatore in grado di attaccare la porta con continuità, di farlo in maniera varia, senza dover per forza rientrare sul destro. E, soprattutto, senza manifestare la necessità di ricevere e poi coprire il pallone con il corpo per poter puntare l’avversario; il georgiano, in virtù di un fisico prorompente, potrà essere servito anche in campo aperto, con passaggi non sulla figura, quindi pure leggermente più imprecisi rispetto a quelli a cui ci ha abituato Mário Rui.

In attesa di verificare come andrà il mercato, di capire quale sarà il futuro di Petagna, l’addio di Mertens cambia le carte in tavola anche nel ruolo di prima punta e di sottopunta. Nel senso: alle spalle di Osimhen non ci sarà più un calciatore come il belga, completamente diverso dal titolare designato. Magari, come detto, anche Petagna andrà via e a quel punto servirà acquistare un calciatore che abbia un profilo quantomeno simile a quello di Osimhen. Non deve essere per forza alto e scattante, ma almeno deve avere la tendenza e la capacità di creare profondità. E di attaccarla. Con Mertens in organico, invece, ci sarebbe sempre l’ingombrante presenza del passato, ma soprattutto Spalletti avrebbe la necessità di stravolgere l’impianto di gioco del Napoli a ogni assenza di Osimhen. Visto che a quel punto dovrebbe giocare necessariamente il belga.

La tattica, la politica

L’ultimo punto riguarda proprio questo aspetto, che esula dalla tattica e diventa puramente politico: Insigne e Mertens restavano e restano due calciatori importanti, riconoscibili. Avevano indubbiamente un loro peso politico all’interno dello spogliatoio, un peso che si riverberava sulle dinamiche tattiche. In qualche modo, anche se in diversi momenti della stagione ha fatto scelte anche di rottura, Spalletti è stato costretto ad assecondarne i bisogni, le idee, le inclinazioni. In fondo il tecnico toscano doveva pur sopravvivere. E poi sarebbe stato francamente ingenuo non provare a sfruttare le qualità di due atleti così forti e rappresentativi.

Ora questo obbligo, anche solo parziale o virtuale, non esiste più. Il Napoli diventerà – o lo è già – di Osimhen, di Kvaratskhelia e anche di Lozano, tutti giocatori che amano attaccare in campo lungo e aperto. Non sfugga, in questo senso, il fatto che Spalletti abbia schierato proprio il georgiano e il messicano dal primo minuto contro l’Anaune. E che Politano sia da tempo il primo indiziato ad andar via: in fondo anche lui è un calciatore fisicamente leggero, un amante del calcio di possesso.

Tutto torna, ogni cerchio si chiude. Dal punto di vista tattico e dell’ingombro politico, il Napoli di oggi e del futuro è una squadra indubbiamente da costruire, ma almeno non ci saranno preclusioni. Né fantasmi. Certo, bisognerà capire chi erediterà – e come – la leadership di Insigne e Mertens, oltre che di Koulibaly. Sarà il campo a parlare, in questo senso: del resto gli stessi Insigne, Mertens e Koulibaly non erano degli uomini-simbolo naturali. Lo sono diventati  col tempo, nutrendosi della loro crescita come calciatori. Insomma, erano i governatori del Napoli perché erano i giocatori migliori del Napoli. La sensazione, a oggi, è che ci sia qualche talento potenzialmente in grado di fare lo stesso percorso, soprattutto ora che la strada è tracciata ed è anche libera, nuova, sgomberata dalle reminiscenze del passato.

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