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I maledetti toscani, allenatori di terra e di mare

Qui ve ne racconto qualcuno. Ulivieri e Lenin, Viciani troppo in anticipo sui tempo col suo gioco corto. Il vulcanico Fascetti

I maledetti toscani, allenatori di terra e di mare

I maledetti toscani, allenatori di terra e di mare. Ve ne racconto qualcuno che qualche traccia ha lasciato.

Uno di loro era alto e grosso, sanguigno, di capelli radi, con una faccia da Cristo in croce e le braccia sempre aperte. Renzo Ulivieri, l’apostata di San Miniato (Pisa). Si allontanò dal Signore e divenne l’irrequieto discepolo del profeta calvo del Volga Nikolaj Lenin di cui possedeva un piccolo busto in legno. Ulivieri disse: “Sogno di trovare un campo di calcio in paradiso”. Si corresse: “Meglio all’inferno perché là almeno ci sono le donnacce”.

Renzo Ulivieri peccò molto di gola e si nutrì con passione di sarde fritte, fagioli col tonno, pane col rigatino, spaghetti con la bottarga. Si addormentava con gli appunti tattici sul comodino e si svegliava di soprassalto scrivendo altri appunti tattici. Negli spogliatoi si presentava così: “Qui comandiamo in tre: io, l’Ulivieri e il figlio della Gina”. E Gina era la sua mamma.

Apparve a Terni, Vicenza, Perugia, Genova, Cagliari, Bologna, Napoli, Parma. Consigliò: “Palla a terra e testa alta, il calcio deve respirare”. A Bologna esiliò Roberto Baggio in panchina e la città sottoscrisse una petizione perché Renzo Ulivieri fosse mandato via. A Napoli, stagione di serie B 1998-99, fallì la promozione. Ripetutamente espulso, fu invitato a lasciar perdere e si dimise a quattro giornate dalla fine del campionato.

Eugenio Fascetti di Viareggio era piccolo e rotondo e con una faccia sorniona. Fu irascibile, vulcanico, litigioso, ma aveva il cuore di panna. A Varese scoprì un sentiero in salita lungo 80 metri. Vi salì e vi scese 140 volte al giorno con le sue squadre sudate e maledicenti. Elargì il suo credo: “Quello che occorre sono nove uomini che applichino gli schemi e due kamikaze capaci di ribaltare tutto”. A Bari lanciò Antonio Cassano, l’artista più ribaldo di Bari Vecchia.

Nedo Sonetti di Piombino sodo, tozzo e ben piantato, in panchina ci andava in giacca e cravatta. La madre Otelia, sposata a Ostilio, con due mani poderose sottrasse Nedo alle bischerate di ragazzo e lo accompagnò nel mondo del pallone perché Otelia amava il calcio. E poi tutti dissero a Nedo Sonetti: “Ringrazia la tu’ mamma. Lo sappiamo che è lei che ti fa le formazioni”. Nedo Sonetti fu un allenatore lirico. Amò la Carmen, adorò il Nabucco e pianse per la Butterfly. Sul bordo dei campi si metteva le mani nei capelli, gioiva, sbraitava e batteva i pugni. Si sposò e promise al suocero: “Entro dieci anni allenerò in serie A”. Mantenne la promessa accompagnando l’Atalanta dalla serie B al massimo campionato. Studiò psicologia e disse: “E’ il mio pane”. Allenò dapertutto per 41 anni dal 1974 al 2015 quando ebbe la bella età di 74 anni. Si ritirò con le cicatrici di esoneri a ripetizione, ma per cinque volte portò una squadra in serie A.

Roberto Clagluna di Pisa fra tutti i maledetti toscani in panchina fu l’unico uomo mite. Ebbe una bella fronte di laureato in scienze politiche. Colto e tagliente, divenne famoso alla Lazio dove passò gran parte della sua vita, esonerato a cinque domeniche dalla promozione in serie A (1982-83), dolore immenso che lo immalinconì per il resto dei suoi giorni. Fu alla Roma in coppia con Sven Eriksson direttore tecnico. Clagluna allenava i giallorossi, ma non gli credettero e tutti dissero che era solo il maggiordomo dell’abbronzato svedese e il suo interprete perchè quello non parlava l’italiano. Ed ebbe un altro dolore quando la Roma, nella stagione 1985-86, rimontò la Juventus, volò verso lo scudetto prima in classifica, ma si abbattè contro il Lecce all’Olimpico a due giornate dalla fine lasciando il tricolore ai bianconeri felici e riconoscenti. Clagluna se ne andò ramingo sulle rive dell’Adriatico allenando squadre del litorale. Fu un allenatore rivierasco e fece buone cose. Morì portandosi le profonde ferite romane, e venne ricordato solo per il nome slittante e cacofonico.

Aldo Agroppi di Piombino, nato in tempo di guerra (1944), fu un uomo bellico. Giocatore del Torino per otto anni e poi del Perugia, da allenatore fu scontroso, provocante e biforcuto. Ovunque andasse, proclamava: “Io non faccio miracoli, io sono nato a Piombino, per i miracoli rivolgetevi a Nazareth”. Portò il Pisa di Romeo Anconetani in serie A. Gli mancava qualcosa e si prese la depressione. Ne uscì e non fu migliore di prima. A Firenze, mancò di rispetto a Giancarlo Antognoni, il più bel putto dell’Arno, e gli ultras l’aspettarono fuori dallo stadio. Mingherlino, fu salvato da Daniel Passarella, il difensore argentino che anche in campo aveva doti di lottatore eccelso. Entrò in polemica con Marcello Lippi di Viareggio, invidioso della bellezza hollywoodiana dell’altro, biondo e occhi azzurri, potendogli contrapporre la sua faccia magra e mefistofelica. Litigarono sulla differeza tra un pareggio e una sconfitta e Agroppi sentenziò: “Meglio due feriti che un morto”. Di tutti sparlò tranne che di se stesso.

Corrado Viciani nacque accidentalmente a Bengasi in Cirenaica, ma era di Castiglione Fiorentino. Stupì a Terni dove inventò il gioco corto. Disse: “Le mie squadre corrono a cento all’ora. Giocano alla sudamericana e corrono all’inglese”. Troppo in anticipo sui tempi, nessuno si accorse delle sue novità. Preciso, pignolo, orgoglioso e scomodo, aveva capelli folti e portava occhiali scuri di foggia sportiva. Predicò e insegnò il suo calcio stupefacente per tre lustri, geloso delle sue idee e tiranno. Spiegò: “Avevo degli asini come giocatori, non potevo permettermi lanci lunghi, invenzioni, fantasie. Bisognava correre, fare passaggetti facili facili, sovrapporsi”. Fu il suo calcio fatto di possesso, pressing alto, sovrapposizioni e fraseggio. Fu il Profeta e il Maestro. Ma i suoi amici di Arezzo dissero: “Te tu siedi e sta’ zitto che vincerai anche i ‘ampionati, ma di ‘calcio non hai mai ‘apito nulla”. Non rispose agli incolti.

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