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Sarti Burgnich Facchetti. Il boom. Poveri ma belli. Un altro calcio, un’altra Italia

Passava di moda il Trio Lescano, s’affermava il Duo Fasano. Dominava Milano. Schiaffino geniale inventore di giocate ammirevoli

Sarti Burgnich Facchetti. Il boom. Poveri ma belli. Un altro calcio, un’altra Italia

Mettetevi comodi che ora vi racconto il calcio del mio tempo antico. Prego, un tango. Violino zigano. No, Luciano Tajoli no. Connie Francis va bene. Vado a cantare in rime più o meno baciate.

Kennedy, la Luna, la gioventù bruciata, il millenovecentosessantotto che botto! Beatles e Rolling Stones. Sarti, Burgnich, Facchetti. Il boom. Poveri ma belli. Bello era Mastroianni. Povero Maurizio Arena della Garbatella. Alessandra Panàro gran pezzo di ragazza faceva la valletta da Mike e a Lovati portiere della Lazio fece girare il cuore.

Illusione di una vita americana. Il frigorifero di Zanussi, la cucina di Merloni, la Vespa, la Lambretta. Dalla Fiat di Valletta la Cinquecento, un macchinino figlio della Topolino. Cento lire per il cinema pane, amore e fantasia. Lollo la bersagliera, la pizzaiola era Sophia.

Il pallone era un proiettile di cuoio. Il portiere vestito di nero, uno sparviero, col numero uno bianco sulle spalle, messo in croce fra due pali e una traversa rigidamente quadrati. Gli spigoli dei tiri sfortunati.

Domeniche di sole e maglie colorate, nel Bologna il passo doppio dell’attaccante destro Biavati, i vati in tribuna stampa per la prosa del lunedì mattina. I prodi di quegli anni Cinquanta e Sessanta erano corsari del pallone. Il nasone di Gino Cappello, centravanti a Bologna. Becattini terzino del Genoa e Aldo Puccinelli ala destra alla Lazio. Corallo e Campanati gli antenati dei fischietti, tra i primi ad essere insultati. Rabagliati cantava “Bambina innamorata”. Cinico Angelini faceva musica e rima con Nello Segurini. Passava di moda il Trio Lescano, s’affermava il Duo Fasano.

C’erano gli oriundi e vennero gli apolidi. Dal nord svedesi d’ogni stazza. Danesi. Un turco di ramazza era Sukru. All’anagrafe ottomana, “sorridente” significava il suo nome breve e sorprendente. All’Inter quattro bidoni: Volpi e Pedemonte con Bovio e Cerioni.

Il Milan calò il tris d’assi svedese. Il professore Gren, Nordhal il pompiere, il barone Liedholm. Erano gli anni Cinquanta. Tanta la voglia di stranieri. Wilkes l’olandese giocava un calcio luccicante, luminoso diamante dell’Inter, silhouette sfuggente. Purissima la sua durlindana, bella la moglie indonesiana.

In quell’Inter di magie e di sorprese arrivò lo svedese che era il più biondo dei biondi del gol. Nacka Skoglund. Stupì per nove stagioni la Wandissima del pallone, stella splendida in campo, pallida luna al tabarin. Le reti scosse dai suoi palloni di seta erano brividi leggeri. Quel fuoco, lieve per i suoi pensieri, non gli scaldò mai il cuore di malinconia. Solo l’alcol, il gol irregolare della sua partita esistenziale, scioglieva il ghiaccio nel suo petto triste. Con un ricordo nerazzurro in fondo all’ultimo bicchiere finì un giorno su un mucchio di neve. Era inverno a Stoccolma e Milano era lontana.

Duello di portieri. Buffòn Lorenzo, il friulano del Milan. Ghezzi Giorgio, il romagnolo dell’Inter. Senza motivi veri
le squadre di Milano si scambiarono i portieri. Due stili, due saracinesche, prese, respinte e voli. Il matrimonio con Edy Campagnoli del milanista col faccione allegro, spilungone, le braccia smisurate. La valletta e il portiere. Il giocatore bello e l’avvenente sposa per i giornali rosa. Ghezzi il kamikaze andava ardito incontro agli attaccanti. Il coraggio fra i denti, la scivolata a carpire il pallone dai piedi dirompenti.

Canzoni. Panettoni. La Dolce Vita. Il modulo Vanoni. Con tante scuse chiusero le case chiuse. Mina cangiante, ora bionda, ora bruna. Tintarella di luna.

In campo, una colonia di stranieri, brocchi svagati e campioni veri.

Dominava Milano, capitale essenziale. La Scala del pallone era San Siro. Il Milan sontuoso del terzetto svedese, il pompiere, il professore cortese, il barone. A quella squadra padrona s’aggiunse un trentenne uruguagio, il raggio di luce di Montevideo di origini liguri, avi emigrati da Portofino. L’anagrafe in regola di Juan Alberto Schiaffino. Magro, all’apparenza legnoso, il viso lungo, irti i corti capelli, un giocatore di fino. Un geniale inventore di giocate ammirevoli. Un lanciatore speciale. Il dominatore assoluto della zona centrale. Pepe il nomignolo affibbiatogli quand’era ragazzo. Era stato scugnizzo con la palla di stracci su una strada neanche asfaltata lungo il Rio de la Plata. Campione del mondo con l’Uruguay del Cinquanta. Senza vizi, spartana la vita, il giorno dopo la gara varcava il confine. Andava a Lugano con le lire dei premi-partita. In dollari e sterline trasformava oculato il suo calcio ammirato. L’Angelica moglie sempre al fianco, all’erta, ospite d’onore d’ogni trasferta. A fine carriera, Juan Alberto Schiaffino spense la luce a Milano e tornò oltremare. Impiantò a Montevideo un’attività immobiliare coi dollari e le sterline delle sue giocate di fino.

Di altri vi racconterò al prossimo giro di tango.

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