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Altro che retorica del ringhio, Gattuso è un uomo dolce

La narrazione mediatica che lo avvolge, è quasi surreale. Al Napoli ha portato un fiore e una carezza. Con la squadra ha stretto un patto basato sulla fedeltà

Altro che retorica del ringhio, Gattuso è un uomo dolce

Con la cinghia in mano

“Ringhione”. Ringhiante, cattivo, un molosso. Un rozzo individuo armato di clava, pronto a randellare il primo che non si alleni a dovere. Un primitivo che insegue i calciatori sul campo di Castel Volturno con la cinghia in mano, per frustarli a dovere.

È questa la rappresentazione che i media fanno di Rino Gattuso allenatore. Del resto, è molto facile descrivere così uno che, da calciatore, in campo mordeva le caviglie degli avversari, vincendo con la “raggia” più che con la tecnica.

Ma quanto sta accadendo al Napoli (e prima che al Napoli è accaduto al Milan) cozza con questa immagine. Non si segue in questo modo chi bastona e basta. Si segue chi mostra anche qualcos’altro.

La cosa che colpisce di quest’uomo, in realtà, è la dolcezza. L’empatia.

Gattuso è arrivato a Napoli e si è messo a totale disposizione della squadra. La prima cosa che ha detto ai calciatori è stata: “Mettetevi dalla mia parte e io mi metterò dalla vostra”. Niente di più che una dolcissima richiesta di affetto.

Del resto, basta guardarlo quando si presenta davanti alle telecamere. Gli occhi color nocciola, liquidi, come quelli di un pitbull a cui, con una carezza, hanno insegnato che, oltre i combattimenti, c’è l’amore.

Si vede che delle interviste farebbe volentieri a meno, che quando aspetta sia il suo turno di parlare, nei post partita, prova a darsi un tono. Fosse per lui, resterebbe nello spogliatoio a far baldoria con la squadra. O tornerebbe immediatamente in campo a correggere quello che non è andato bene. Un uomo molto intelligente, furbo, che sa perfettamente cosa serve a rendere un gruppo di calciatori una famiglia. Altro che rozzezza. L’accento calabrese si presta alla finzione mediatica ma nei suoi occhi c’è qualcosa in più.

Si tocca l’orecchio destro

Con il Napoli ha stipulato un patto. Non è arrivato con la clava in mano, al contrario, ha portato un fiore e una carezza.

Gattuso si è fatto da solo. A 13 anni è andato via di casa per inseguire un sogno. Ha lasciato la Calabria ed è diventato cittadino del mondo. Abituato a guadagnarsi la pagnotta, ha ben presente cosa significhino lavoro, gratitudine, umiltà e rispetto. Conosce il valore della riconoscenza. Dice ai suoi: se mi aiutate vi aiuterò anche io. Se oggi sarete felici, lo sarò anche io. Se vincerete vincerò con voi. Concede carezze per riceverne. Un cagnolino fedele che si accuccia sui piedi di chi gli tende la mano.

Quando è in imbarazzo, durante le interviste, si tocca la parte superiore dell’orecchio destro, come fanno i bambini quando raccolgono le forze per dimostrarsi grandi o per trattenere le lacrime. Nemmeno Gattuso piange, gli occhi si fanno lucidi se pensa alla sorella andata via troppo presto, ma il risultato è solo quel liquido che si scioglie al di sotto delle palpebre. Non sgorga, resta dentro, nell’imperscrutabile mondo gattusiano, in cui è vietato mostrare se sanguini, altrimenti arriveranno gli squali e dovrai combatterli. Meglio ingoiare le lacrime, come la polvere dei campi di calcio. Non c’è tempo per il resto.

Lo descrivono come semplice, pane al pane e vino al vino. Si descrive così anche lui, per proteggere i risvolti più intimi della sua famiglia, quella a casa e la seconda, in campo.

Me lo immagino conservare i sorrisi per la moglie, i suoi figli e i suoi ragazzi. I discorsi tattici, nei quali si lancia a tambur battente davanti alle telecamere, in realtà lo annoiano. Meglio il campo, lo spogliatoio, di cui conosce ogni piega. Si vede che è impaziente di tornarci. A lui questa roba da bar non serve. Gli serve ricordarsi continuamente da dove è venuto, cosa ha creato e rendere grazie al destino e al lavoro.

Probabilmente non conosceremo mai il vero Gattuso. Perché non divideremo con lui una cena e neppure lo spogliatoio. Il suo aspetto più intimo resta nascosto, lo riserva a pochi, a chi gli serba gratitudine e rispetta il suo lavoro. Tutta la sua energia la mette nel solcare la vita, nello stare accanto a chi ha bisogno di lui e nel trovare il tempo di affiancare chi riesce a farlo sentire vivo, umano.

Lo ha ripetuto più volte: “Mi piace lavorare con persone che mi seguono e mi stimano”. Nient’altro che una dolcissima richiesta di affetto. Quello che il Napoli, raccolto quando era piombato in un inferno a cui sembrava non ci fosse fine, gli ha concesso.

Chi si fa da solo, come ha fatto lui, ha solo due percorsi davanti quando riesce ad arrivare. Ricordarsi per sempre da dove è venuto e rendere grazie a Dio, oppure diventare un bamboccio viziato e donarsi tutto quello che prima non è riuscito ad avere. Lui ha scelto la prima, ha scelto di donare agli altri per avere in cambio anche lui qualcosa.

Una narrazione quasi surreale

La narrazione che ne fa la stampa è quasi surreale. Lui non la allontana, non volontariamente, e non gliene faccio una colpa. Semplicemente non gli interessa. Da uomo intelligente quale è, sa che prima o poi, quando tutto sarà finito, l’unica cosa che conterà sarà quella di aver lasciato un segno. E il segno di Gattuso, almeno finora, è palpabile quasi quanto quello di un sacerdote che ti fa la croce sulla fronte nel gesto di darti l’estrema unzione. Una carezza per lasciare un’impronta sul cuore. In memoria di tutti quelli che, quella carezza, l’hanno fatta a lui. Una celebrazione continua, muta, senza trastulli e orpelli.

Non c’è tempo per altro. Perché, e qui sta la sua grande dimostrazione di intelligenza, mentre i giornali perdono tempo a descriverlo come ringhiante, ringhione e assassino, lui lavora. Nel gioco del suo Napoli non c’è nulla di casuale. Ha costruito – sta costruendo – una squadra che si presta a più di un’interpretazione. Capace di chiudersi a catenaccio e aspettare avversari come Inter e Juve oppure di palleggiare dal basso per colpire quando necessario, come contro il Verona.

Così, mentre gli cuciono addosso l’etichetta di allenatore tutto cuore e grinta, lui indossa una casacca da allenatore sofisticato, che fa credere al nostalgico De Laurentiis che gli darà il 4-3-3 di memoria sarriana  e invece confeziona un prodotto che reca la sua impronta. Con il tempo e il lavoro, e la sofferenza. E la gratitudine dei suoi giocatori, ai quali è grato anche lui.

«Se Gattuso mi chiamasse alle 4 del mattino, per lui andrei anche in guerra», ha confessato al Corriere della Sera un anonimo giocatore del Napoli, qualche giorno fa. La fenomenologia di Gattuso sta tutta qua. Niente sofismi, e neppure clava ringhiante, solo lavoro, fatica, sofferenza, dignità. Gratitudine e fedeltà. Quella con cui ci si conquista un posto in paradiso. Più dolce di così…

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