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C’è anche la caccia agli untori dal balcone. Ma in tanti vanno a lavorare

Insulti, gavettoni, foto e gogna mediatica. Ma, al netto degli irresponsabili (o deluchianamente bestie), la maggior parte di chi è in strada, è obbligata. Ha chiuso poco o niente

C’è anche la caccia agli untori dal balcone. Ma in tanti vanno a lavorare
Puoi correre, no non puoi. Puoi passeggiare, ma solo se hai il cane. O no, non puoi proprio uscire di casa, ma puoi prendere la metro, fare le code al supermercato. Puoi andare al lavoro, se il lavoro non viene da te, sempre che sia un lavoro “necessario” altrimenti a casa. Lo stillicidio di “a meno che…”, di eccezioni alle regole a geometria variabile, di divieti che valgono per una regione ma per lo Stato no – o magari “forse”, perché l’ordinanza è scritta male e lascia margini di discrezionalità – unito alle ansie di una popolazione chiusa in casa per decreto ha scatenato un altro fenomeno di massa: la caccia all’untore.
“State a casa” ormai è un mantra, un imperativo categorico. E chi non sta a casa, rischia grosso: le sanzioni, certo, ma anche l’ira della gente. L’ha palesato a Repubblica la sindaca di Torino, Chiara Appendino: “Negli ultimi giorni mi sono arrivate troppe segnalazioni di persone insultate dai balconi, aggredite verbalmente o fotografate per strada e subito messe alla pubblica gogna sui social network”.
In un momento in cui la “giustificazione” autocertificata mostra tutti i limiti facilmente immaginabili, la gente si affaccia alla finestra e giudica: che ci fa in strada quello? Foto, dito puntato, ma anche il gavettone, gli insulti, il lancio di oggetti. Chi lavora, in un Paese ancora tutto aperto, e che pure quando annuncia la chiusura della attività non necessarie (di fretta, di sabato sera, con le idee ancora poco chiare) in realtà poi sospende poco o nulla, ormai viene guardato con sospetto: finge? Ne approfitta per mettere a rischio la salute pubblica facendosi una passeggiata? I tutori dell’ordine da balcone ovviamente non lo sanno, ma intanto accusano, a prescindere. A volte si fanno giudici, senza appello.
E’ l’altra faccia del contenimento sociale: odiamo le costrizioni, ma ne invochiamo di più, a pioggia. L’isteria dei domiciliari che trova sfogo nella ricerca del “mal comune”: se io devo stare chiuso dentro, allora tutti! Principio che avrebbe un senso se il lockdown più volte annunciato dal governo fosse un vero lockdown e non l’informe via di mezzo che cerca un drammatico equilibrio tra la garanzia dei servizi ai cittadini, gli interessi economici di Confindustria e la sicurezza dei lavoratori. Ma il trasporto pubblico funziona, moltissime fabbriche continuano a lavorare, alimentari e negozi di “prima necessità” sono aperti. E il teletrasporto dei commessi non l’hanno ancora inventato.
La distorsione dello “smart working” suggerisce l’idea che tutti possano continuare a lavorare da casa, o che si possano mettere in ferie, o che semplicemente non si apre bottega e punto. Quando invece le strade sono piene, a volte troppo, di persone che devono uscire per forza e di “clandestini” che se fregano dei decreti e della salute dei propri simili. Basta guardare le percentuali dei controlli di Polizia e Carabinieri: i passeggiatori “illegali” sono più o meno il 5% dei controllati. Sono pericolosi, e insopportabili. Ma sono pochi: il 95% dei fermati poteva stare in strada, anzi “doveva”. E sono paradossalmente proprio loro, i forzati degli spostamenti lavorativi, le prime vittime di quelli che De Luca chiama “bestie”. Perché chi esce per prendere il sole, o sfida i “lanciafiamme” del governatore per vedersi con gli amici, oltre a mettere a repentaglio la salute pubblica favorendo il contagio e l’affollamento delle terapie intensive, si nasconde dietro le spalle di quelli che invece vorrebbero stare a casa e non possono. Che vanno a lavoro e vengono additati, offesi, uniformati al malcostume di chi ha le fregole.
La moda del controllo dall’alto, innescata a volte dalla noia a volte da un’innata propensione ad ergersi paladini dell’ordine altrui, è un risvolto della confusione dei ruoli e dello stress che va accumulandosi. E attecchisce benissimo in un momento in cui il governo scarica – più o meno implicitamente – le “colpe” della diffusione del contagio sulla popolazione. Trasformandoci tutti, agli occhi degli altri, in ostaggi o untori, alternativamente. O, troppo spesso, giustizieri di cartone armati di smartphone.
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