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Ciro Fusco e la foto della strage di Castel Volturno: «Una giornata infinita e i dubbi dopo lo scatto»

DACCI OGGI LA NOSTRA FOTO QUOTIDIANA / «Dietro quello scatto del 2008 c’è la solidarietà tra fotografi, la voglia di non fermarsi mai alla prima verità»

Ciro Fusco e la foto della strage di Castel Volturno: «Una giornata infinita e i dubbi dopo lo scatto»
La strage di Castel Volturno tra il 18 e il 19 settembre 2008: sei i morti, tutti extracomunitari. (Ciro Fusco)

LA STRAGE DI SAN GENNARO

Era la notte tra 18 e il 19 settembre 2008 a Castel Volturno: la notte della strage degli immigrati, detta pure la strage di San Gennaro, nella quale morirono sei innocenti immigrati ghanesi sotto il fuoco assassino del clan dei Casalesi.

Ciro Fusco, l’autore di questa foto, era lì per riprendere l’atroce evento.

Ciro Fusco è il fotografo corrispondente dell’Agenzia Ansa a Napoli. Nel corso della sua carriera ha maturato esperienze sia nazionali che internazionali, ha seguito due Papi nei loro viaggi e documentato Olimpiadi e campionati del mondo di calcio.

UNA LUNGHISSIMA GIORNATA LAVORATIVA

A Ciro pongo la classica domanda di apertura di questa rubrica

Come nasce questa foto?

«Questa foto fu l’epilogo di una giornata molto faticosa per me e per tanti colleghi napoletani. La giornata cominciò con una trasferta a San Giuliano di Puglia dove l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi inaugurò una scuola elementare in ricordo di quella caduta durante il terremoto del 31 ottobre 2002 in cui morirono 27 bambini ed una maestra. Il rientro a Napoli fu obbligatoriamente molto affrettato perché il Napoli avrebbe giocato al San Paolo una importante partita internazionale valevole per la Coppa Uefa contro il Benfica. Partita che sanciva il rientro del Napoli nel gotha del calcio europeo».

Una giornata lavorativa che in tutti i casi sarebbe durata almeno quindici ore

«Sì, infatti i programmi erano questi: dalle 8 alle 24 tempo di trasmissioni, foto della partita compreso».

E invece?

«Invece allo stadio San Paolo, durante la partita, cominciarono a raggiungerci voci e notizie non accertate di sparatorie nelle zone rivierasche di Caserta. Voci confuse, perché alcune notizie riportavano sparatorie con un morto a Castel Volturno, altre addirittura di una strage, come terribilmente poi accertammo, sempre in zona Castel Volturno o Baia Domizia. Questa imprecisione delle fonti e il prosieguo della partita ci colsero non impreparati ma storditi sull’immediato da farsi».

IL PROBLEMA DELLE ATTREZZATURE

Certo, mi rendo conto. Oltretutto avevate attrezzature non idonee o almeno troppo spinte per affrontare un servizio prettamente di cronaca, quindi si ponevano problemi logistici oltre che di individuazione dei luoghi e certezza della notizia.

«Proprio così. Anzi, il problema sarebbe stato anche lo spostamento. Eravamo quasi tutti allo stadio in motocicletta e, come dicevi tu, con ottiche lunghe che poco si addicono all’operatività in un teatro di violenza».

Come si risolvono questi problemi quando non c’è il tempo materiale per tornare a casa o in ufficio a lasciare l’attrezzatura superflua insieme alla moto per poi prendere l’auto?

«Io e altri colleghi, quelli interessati alla notizia o a quella che era a ancora “ipotesi di notizia”, riuscimmo a partire dallo stadio lasciando i 300, 500 e 600mm a un collega che si fece carico di portarseli a spalla tutti e poi “sequestrammo” (in modo amichevole e anche perché era interessato anch’egli all’evento) un collega fotografo esclusivamente di sport che aveva l’automobile. Partimmo immediatamente al fischio finale dell’arbitro per non rimanere imbottigliati nel traffico post-partita, lasciando nei parcheggi le nostre moto e gli scooter».

SOLIDARIETA’ PROFESSIONALE

Possiamo parlare di solidarietà professionale? Un collega che prende in carico l’attrezzatura e un altro che si lascia convincere ad accompagnarvi sono gesti importanti.

«Ho una idea personale per quanto riguarda fare il fotografo e farlo a Napoli. Lo dico perché ho avuto e ho tutt’ora la possibilità di confrontarlo con ciò che accade in altre città e all’estero. La solidarietà che c’è a Napoli e lo spirito di collaborazione professionale non si trova in altre situazioni in maniera così spinta. È dovuto sicuramente al fatto che in questa città copriamo eventi che possono lasciare molto spazio agli imprevisti legati alle reazioni delle persone che andiamo a fotografare o ai familiari delle persone; parlo ovviamente di eventi legati alla cronaca nera, quindi questi pericoli fanno sì che ci si protegga l’uno con l’altro».

È molto bello questo atteggiamento ma, facendo l’avvocato del diavolo, questo non può far ammorbidire i rapporti di concorrenza e sana competizione?

«No, non credo e non è cosi. È naturale che poi quando si tratta di scattare ognuno è se stesso. Tenendo presente la leale concorrenza e i rapporti competitivi che esistono tra giornale e giornale, agenzia e agenzia, fotografo e fotografo».

VERSO CASTEL VOLTURNO

Partiti per Castel Volturno, continuavate ad acquisire informazioni, anche per meglio comprendere lo scenario che vi apprestavate a vedere e riprendere. Fu facile l’individuazione del luogo?

«Ovviamente ci dirigemmo a Castel Volturno dove chiedemmo informazioni a un abitante che incontrammo per strada. Gentilmente ci diede informazioni su di una sparatoria in prossimità di un bar, avvisandoci che c’era anche il pericolo di poter essere oggetto di violenza da parte dei familiari della persona uccisa. Non ci convinceva il numero degli assassinati, un solo morto, mentre oramai tutte le redazioni parlavano di strage.

Non poteva esserci una così enorme discrepanza. All’ennesima domanda che rivolgemmo al signore, lui rispose con un’altra domanda che fu illuminante, ci disse: «ma forse voi parlate dell’altra “cosa”, sì, quella forse è avvenuta dalle parti del lago Patria». Evidentemente, per questa persona era di prioritaria importanza, e pensava lo fosse anche per noi, la notizia avvenuta sotto casa sua e non quella ben più tragica di una strage a pochissimi chilometri di distanza.

A questo punto, benché stanchi della lunghissima giornata e per lo più ancora perplessi per questa notizia che rimbalzava in maniera non certa, non ci scoraggiammo e ci avviammo alla sartoria del Lago Patria teatro della strage».

SUL LUOGO DELLA STRAGE

Quindi voi lasciato lo stadio, dopo una lunga giornata di lavoro, avete svolto i ruoli dell’investigatore e del  verificatore, perché non vi siete fermati alla prima affermazione dell’abitante che riportava il tutto finito, affermazione che vi dava il “lasciapassare” per tornare  finalmente a casa.

«Esatto, anzi, una volta arrivati sul luogo della strage, abbiamo ripreso i panni dei fotografi cominciando a muoverci in quel teatro, sulla scena degli omicidi.

Era una situazione molto difficile, dovuta al numero delle vittime e alla distanza che correva tra loro. Sei corpi senza vita, bossoli ovunque, sangue, buio, polizia che non gradiva la nostra presenza sul posto, ma esclusivamente perché si sarebbe potuta inquinare la scena. Poi una presenza massiccia di extracomunitari. Fotografo, uno, due, tre quattro, cinque corpi a terra, sangue, rilievi, poi la stanchezza mi prende e ci prende, facendoci decidere che oramai il servizio era fatto, finito.

LA SENSAZIONE CHE QUALCOSA POTESSE ACCADERE

Purtroppo avevamo ripreso gli effetti di una strage inconcepibile. Eravamo decisi a rientrare, ma c’era la sensazione che qualcosa potesse accadere. Sensazione dovuta anche al silenzio degli extracomunitari amici delle vittime che mano a mano avvisati dai loro congiunti si recavano sul posto. Tutti si tenevano a distanza dal luogo e dai corpi, lasciando lavorare la scientifica e le altre forze dell’ordine in modo educato e comprensivo del lavoro che stavano svolgendo. Ma nel silenzio che si ascoltava, sentivo e sentivamo che qualcosa all’improvviso potesse accadere.

In un attimo, anzi in un lampo,  alcuni di loro, in maggioranza donne, contravvengono a questo muto accordo con la polizia e si avvicinano ai corpi per scoprirli dai teli con i quali erano coperti nel tentativo di riconoscere qualche loro congiunto e nella speranza di non vederli tra le vittime. Una di queste donne, guardando una dei corpi per terra, ha un cambiamento di espressione repentino, passando dalla speranza di non riconoscere il fratello alla disperazione del riconoscimento. È la foto che hai visto. Quella donna lanciò un grido straziante di disperazione allontanandosi dal corpo del fratello.

HO FATTO BENE A SCATTARE?

Mi sono chiesto molte volte se ho fatto bene a riprendere quel sentimento di dolore e credo di sì, credo di aver fatto bene e non è una banale autogiustificazione. Mi sono detto: “non ti sei fermato a fotografare i cinque corpi senza vita delle vittime e sei andato via… tanto il servizio c’era. Ho aspettato per una foto che fosse significativa dell’evento e per me il significato dell’evento era la disperazione dei familiari. E in quei pochissimi minuti nei quali hanno invaso la scena della strage, loro erano lì a testimoniare la loro disperazione e io volevo che uscisse anche questo e non solo la cronaca di un tragico evento di sangue innocente versato».

Violenza, morte, sgomento, disperazione sono i  vocaboli legati da questa fotografia scattata da Ciro. La genesi della foto ce ne porta alla mente altri: solidarietà, ostinazione, professionalità, conoscenza, verifica, testimonianza, umanità

Essere sempre pronti ad affrontare qualsiasi tipo di evento. Informarsi sempre prima di arrivare su qualsiasi scenario operativo. Cercare ostinatamente la foto che rappresenti l’evento. Non fermarsi alle prime impressioni. Verificare, sempre, testimoniare, perché si è scelto di essere testimoni quando ci si è convinti che questa fosse la professione da intraprendere. Umanità, perché essere invisibili per farsi accettare in questi scenari significa comprendere, non invadere e rispettare l’altrui dolore, perché questa è professionalità, ma prima di tutto sensibilità, una delicatezza che non deve mai abbandonare chi ha deciso di raccontare.

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