ilNapolista

Romanzo napolista / L’incontro tra il giovane Orson e il presidente Onassis

Seconda puntata del romanzo “Hard Boilin’ Football” di Pasquale Guadagni.

Romanzo napolista / L’incontro tra il giovane Orson e il presidente Onassis
Onassis

Nelle file del Dinamis il giovane Castano c’era finito quasi per necessità. La madre, rimasta vedova, si era portata il figlio via dalla città ed Orson aveva trascorso l’infanzia a veder giocare la squadra di quel paesino dimenticato da Dio. Era ancora un bambino quando maturò non il sogno, ma l’inattaccabile certezza che presto la porta scalcinata del campo sportivo del Dinamis avrebbe avuto bisogno di lui. Il ragazzo a dodici anni già si allenava a tempo perso con i titolari, la domenica sedeva in panchina, non come portiere in seconda ma come tuttofare della squadra, ripassava il gesso sulle linee di campo e durante l’intervallo sbiadiva la linea della porta in cui nella ripresa avrebbero tirato gli ospiti o provava ad arretrare di mezzo metro il dischetto del rigore. Quando qualcuno tra gli avversari si accorgeva di Orson e faceva il muso duro, il ragazzo raccontava qualcosa d’improbabile, che la società al gesso doveva supplire con un’infima miscela di soda che alla lunga era caustica per la pelle e sì che i Dinamis lo sapevano, mica gli altri si allenavano là tutti i giorni.

In uno di quei giorni d’allenamento, mentre tutto sembrava scorrere come sempre, il mister La Cruz iniziò a dimenarsi da solo, schiumando dalla bocca. Tra urla strazianti, nel suo inconfondibile greco-messicano, sbraitava invasato di un’imminente calamità, cui sarebbero seguiti nuovi equilibri. In preda alle convulsioni, mister La Cruz corse come un ossesso attraverso il campo di gioco, all’improvviso cadde sulle ginocchia ed urlò: “No! Non adesso, nooo!” Seguirono pochi istanti di fitto silenzio, poi Kalamata, che allora aveva trentasette anni e godeva ancora della fama di bomber del Dinamis, stramazzò a terra con un rantolo. Orson fu il primo a vederlo accasciarsi, corse a perdifiato verso di lui e con una manipolazione casuale della coscia destra riuscì a farlo rialzare subito. Kalamata era un asso finito, ma ancora molto influente e così l’indomani andò a parlottare un po’ con il mister per convincerlo a prendere Orson come massaggiatore, visto che il Dinamis non ne aveva uno vero da più di un anno, da quando il farmacista aveva deciso di togliersi di mezzo per dedicare le domeniche alla moglie gelosissima. La Cruz, convinto che la sciagura presentita nei suoi spasmi fosse l’arrivo di Kalamata al capolinea di lunghe stagioni, accolse di buon grado la proposta del vecchio bomber.

La carriera di massaggiatore per Orson durò appena una stagione e non solo perché il ragazzo premeva per far capire ai portieri che il loro tempo stava scadendo. Quando in una domenica di fine aprile, verso la fine di un campionato che il Dinamis onorò con un buon sesto posto, l’ala sinistra Tetrakis fu abbattuto dalla scarpa chiodata di un avversario, Orson corse dall’infortunato e, credendo di far bene, si stese al suo fianco facendogli una cravatta strettissima con le braccia intorno alla gamba dolorante. Tetrakis, che soffriva di una strana bulimia che lo costringeva a mangiare di continuo, ebbe spasmi lancinanti, vomitò e svenne, sfinito dal caldo e dal massaggiatore. Solo dopo molti giorni si seppe che Orson aveva procurato una frattura scomposta alla tibia del numero undici e la gravità della cosa fece intervenire il presidente in persona, che decise di silurare Castano e di vietare a La Cruz di dar conto alle visioni provocate dai suoi spasmi. La carica di massaggiatore restava vacante e da allora ogni giocatore si sarebbe preso la responsabilità di autodeterminarsi nella gestione delle proprie dolenze.

Il presidente del Dinamis era Egeiros Onassis, un pezzo da novanta della mala tessala. Ogni domenica casalinga Onassis arrivava nella piccola tribuna coperta strisciando il suo corpo di bue infagottato in gessati che nessuno in paese poteva permettersi. Lo accompagnavano sempre i suoi luogotenenti, cui il sindaco del paese aveva riconosciuto illimitati poteri di polizia in occasione di eventi sportivi al campo di gioco. La gente del paese pensava che il cognome del presidente fosse una garanzia e le sue scelte erano considerate indiscutibili. Tutti sapevano che le fortune di Onassis si reggevano sul contrabbando di alcol e armi, ma in paese tutti ripetevano che senza Onassis ad ognuno sarebbe toccata molta più merda di quanta già ce ne fosse. Per i calciatori, il presidente era una specie di padre severo ed Orson, quando dieci giorni dopo il sacrificio di Tetrakis fu convocato nel suo ufficio per le otto di sera, ebbe una crisi isterica di pianto, furibondo prese a calci tutto ciò che aveva sottotiro e iniziò ad urlare che Onassis lo avrebbe mandato in confino in una squadra di pescatori di qualche isoletta sperduta nell’Egeo.

Quel pomeriggio Orson non si fece vedere al campo, ma andò dalla mamma per lamentare che mai, per un incidente che aveva causato in buona fede, Onassis avrebbe potuto stroncargli una carriera che lui sentiva prossima a sbocciare. Mamma, cosa ci devi fare con tutta questa moussaka? – le chiese Orson appena fu entrato in cucina, dove vari tegami aspettavano pronti per essere infornati. Non è roba tua, – gli fece la mamma – per te ho dell’ouzo. Quando Orson fu sull’uscio per andarsene, la mamma aveva gli occhi lucidi e nel dargli una bottiglia di ouzo avvolta nella carta del pane, gli disse: “Figliolo, devi solo far capire ad Onassis che sei un buon portiere e che meriti di essere messo alla prova”. Sì, mamma – esclamò Orson – ma Onassis a quest’ora ha già deciso la mia sorte. Io non ho sbagliato quando ho spezzato Tetrakis, ma quando feci rialzare Kalamata, che ormai non serviva più a nessuno. M’impiccio troppo di cose in cui non dovrei ficcare il naso. Ma se la mia sorte è segnata, io ti porterò con me nelle Cicladi! E si allontanò, stappando la bottiglia. Sii prudente! – gli urlò la mamma – E quando sarai da Onassis ricordati di Kane, tuo padre pensava sempre a Kane! Quel fottuto di Kane! – si disse Orson tra sé e sé – Da lui mica pretendevano di far camminare gli storpi.

Nelle due ore che lo separavano dall’appuntamento, Orson vagò per i campi bevendo l’ouzo della mamma, quasi cercasse l’ispirazione che non sarebbe arrivata e stringeva i pugni, ringhiava, sperava di trovare le parole giuste perché Onassis non gli facesse mettere le mani addosso dai suoi guardaspalle. Seduto sul grano, Orson guardò il tramonto tessalo con occhi acquosi, poi per il troppo bere si afflosciò sulla schiena e in un dormiveglia inquieto sognò Onassis in persona, in maglietta e calzoncini, che con fare autorevole metteva il pallone sul dischetto. In porta c’era lui e uno sciame di api gli ronzava davanti alla bocca. Onassis tirò teso e laterale, e lui in uno strenuo tuffo andava a battere la testa contro la base del palo, mentre il pallone si era già infilato. Allora Orson si svegliò in un bagno di sudore e, terrorizzato, capì che era già tardi. S’infilò nei pantaloni la bottiglia mezza vuota e iniziò a correre verso l’ufficio del presidente.

Entra figliolo! – bofonchiò Onassis, quando alle otto e venti Orson bussò alla porta. Il ragazzo entrò a passi lenti, aveva il fiatone e la sua maglia d’allenamento era fradicia di sudore. Mi perdoni il ritardo, signor presidente, – cercò di scusarsi – oggi ho lavorato sodo sui calci piazzati. Sì, – gli fece eco Onassis – ho saputo che ti piace allenarti in porta. Sei bravo? Il mister dice che me la cavo – rispose, sedendosi timidamente sulla punta di una poltrona davanti alla scrivania. Alza il tuo culo fradicio di lì! – urlò Onassis – Quella non è una panchina del cazzo! Quella è una poltrona francese per i miei soci d’affari. Orson si alzò di scatto e il movimento fu così brusco da portargli alla bocca parte dell’ouzo che aveva mandato giù. Lo sguardo del ragazzo si colorò di terrore e nello stesso momento, sentendosi in parte ancora nell’incubo da cui era fuggito, Orson si piegò in avanti e vomitò desolatamente nel vaso di una pianta grassa che adornava l’ufficio del boss. Cazzo! – urlò Onassis – Sei venuto qui ad insudiciare, piccolo verme? Agios! Agios! Vieni subito qui! Agios, un uomo sulla quarantina a forma di cassettone, entrò nello studio e Orson pensò che era finita.

Agios! – esclamò Onassis, che era rimasto stravaccato nella sua poltrona – butta questa pianta nel cesso e porta uno straccio a questa bambina indisposta. Agios eseguì l’ordine con discrezione e quando tornò con uno straccio in mano si accorse della bottiglia nei pantaloni di Orson. Capo, – disse con una voce sghemba, mettendo la mano sulla coscia del ragazzo, gonfiata dalla bottiglia – la signorina è pericolosa con questa roba che si porta dietro. Gliela prendo? No, – fece il presidente – quando lo caccerò di qui ne avrà un fottuto bisogno. Agios uscì, Orson ormai era un fagotto viola e pensò che il presidente, applicando con meticolosità la legge del taglione, avrebbe fatto eseguire su di lui la cravatta con cui da massaggiatore aveva messo fuori uso Tetrakis. Dopo un prolungato silenzio, mentre Orson si guardava le punte delle scarpe, Onassis si accese un sigaro, con lentezza, maneggiando un accendino d’argento molto pesante, con la volgarità di chi si affanna a rimarcare un’eleganza. Ruppe gli indugi: “Caro massaggiatore del cazzo, da oggi tu non metterai più a repentaglio la tenuta dei miei uomini ed ogni calciatore baderà da sé al proprio culo! Ho parlato con Tetrakis e mi ha assicurato che tornerà presto. Ma Tetrakis mi ha sorpreso per un’altra ragione: mi ha parlato bene delle tue parate. Io ho obiettato che un massaggiatore che frattura i suoi uomini, come portiere dovrebbe essere un cane bastardo che da la caccia ai suoi difensori, ma lui ha insistito che tra i pali ci sai fare. L’anno prossimo Arpamidis andrà via ed io sarei disposto a metterti in panchina al suo posto, ma sappi che lo farei solo perché di questi tempi in Tessaglia ci sono meno portieri che pinguini. E poi tu non mi costi un cazzo. Ti voglio mettere alla prova, piccoletto, ma non tirarmi brutti scherzi, perché alla prima che mi fai ti faccio pentire di avere infilato i guantoni e allora non ci sarà più nessun appello. Durante la preparazione estiva capirò se sei solo un massaggiatore del cazzo che sa parare o se Tetrakis è più stronzo di te. E ora vattene”.

Grazie, grazie, grazie, signor presidente, – esclamò esterrefatto Orson, mentre con un moto di spontaneo entusiasmo tirava la bottiglia fuori dai pantaloni – le assicuro che premierò la sua fiducia. Vuole brindare al mio ingaggio con un po’ di ouzo? Di quale cazzo di ingaggio parli? – fece di rimando Onassis – Io non ho parlato di ingaggio, ho detto solo che durante la pausa estiva vedrò se hai le palle! E ora via, io sono un commerciante internazionale di rhum, whiskey, campari, tabacco e quant’altro, anche Smith&Wesson nei mesi in cui mi tira bene, non mi sporco il fegato col tuo ouzo di merda.

Fuori era buio, Orson aveva dentro un’esaltazione incontenibile e pensava che tutto stava andando nella direzione che pretendeva dal suo destino, ma con quale velocità, per quali attimi inopinati. Passò a casa di Tetrakis per ringraziarlo delle parole che aveva speso sul suo conto con Onassis e per bere con lui in segno di riconciliazione. Bussò alla porta della sua stamberga e venne ad aprire l’ala sinistra del Dinamis in persona, arrancando sulle grucce. Appena vide Orson, Tetrakis brandì una stampella facendo gli occhi spiritati e, tenendosi sulla gamba sana, urlò a squarciagola: “Sporco macellaio, che cosa ci fai qui? Via da casa mia o ti spezzo queste grucce sulla schiena!” Impreparato a quell’accoglienza, Orson allibì e se la diede a gambe, rincorso da un cane dalle orecchie mozzate. Quando fu a casa, vuotò in solitudine la bottiglia, tormentandosi di domande su Onassis e su Tetrakis, proprio non capiva perché l’ala sinistra avesse perorato la sua causa dal boss, se lo aveva così in odio per via di quell’incidente. Ma presto le domande furono travolte dal sonno ed Orson si addormentò con la bocca socchiusa e la faccia distesa, ormai si sentiva già il portiere del Dinamis.

Quella notte sognò Tetrakis che gli infilava un autogol, poi Onassis scese furibondo dalla tribuna per avere la testa dell’ala sinistra, intorno ogni cosa profumava d’estate, a bordocampo i bambini spendevano i loro spiccioli per comprarsi la granita e mentre sul prato, a gioco sospeso, Onassis rincorreva Tetrakis sulla fascia, Orson guadagnava gli spogliatoi e faceva la doccia con Zora e le altre, che sorridenti si lasciavano baciare sulle labbra. (2-continua)

La prima puntata del romanzo

ilnapolista © riproduzione riservata