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Il football per Orson era diventato ciò che per suo padre era stato Citizen Kane

Parte oggi sul Napolista il romanzo a puntate “Hard Boilin’ Football”. Orson era il portiere di una squadraccia di terza divisione.

Il football per Orson era diventato ciò che per suo padre era stato Citizen Kane
Citizen Kane

Al via, sul Napolista, il romanzo a puntate “Hard Boilin’ Football” di Pasquale Guadagni.

Quando le giacche gallonate di tutta la Grecia iniziarono a riscrivere la linea di confine tra i buoni e i cattivi, Orson Castano era un portiere di football sulla trentina che ne aveva viste abbastanza, anche se di politica sapeva solo quello che dicevano alla televisione il lunedì sera, quando andava dalla mamma e mangiava enormi porzioni di moussaka. Quel nome gliel’aveva imposto il padre, al quale i problemi del mondo, della vita e dell’uomo erano apparsi di semplice soluzione quando per sbaglio entrò in un cinema e vide Citizen Kane. In quel giorno lontano, in quella sala buia e senza nome, il vecchio Castano pensò che quel Kane aveva una marcia in più e quando uscì dal cinema spalancò al cielo i suoi occhi vitrei, poi sputò furiosamente a terra e con voce roca esclamò: “Cazzo, se lo avessi visto vent’anni fa sarei potuto diventare chiunque, anche il presidente degli Stati Uniti d’America!”

Orson perse il padre molto presto, appena in tempo per farsi affibbiare quel nome ingombrante. Quando diventò maggiorenne, la madre gli regalò una scatola di tela rossa con dentro un biglietto che il marito aveva vergato anni prima in punto di morte. Orson aprì la scatola emozionato, srotolò un piccolo foglio ingiallito e vi trovò scritto: senza le palle di Kane, figliolo, non andrai da nessuna parte, per cui cerca la tua Rosebud senza fare troppe chiacchiere. In quegli anni Orson aveva visto già diverse volte il film da cui il suo vecchio non era più tornato, ma non gli faceva un grand’effetto, nonostante la madre, come in preda ad un’infatuazione riflessa, andasse ancora raccontando in giro di come, negli ultimi anni, il marito dagli occhi celesti, abbracciandola, le sussurrava all’orecchio: “Di Kane ne so abbastanza io, tu pensa solo ad amarmi”. Ma il ragazzo aveva altri canali di esaltazione, che si chiamavano prato, fango, pali, linee di gesso, cura e missione del parare, insomma il football visto dalla solitudine del portiere.

Già da un paio d’anni Orson era diventato estremo difensore titolare in una squadraccia di terza divisione del paese della mamma, in Tessaglia. La prima domenica in cui andò a difendere i pali da maggiorenne, oltre all’abituale bottiglia di Ouzo, da cui trincava un sorso prima di un angolo o di un rigore contro, portò con sé in porta il biglietto del padre e al fischio d’inizio, scalciando furiosamente la terra bruna dell’area piccola, pensò che il suo vecchio non aveva dovuto sentirsi molto meglio quando era uscito da quel cinema con chissà quali certezze. Quel giorno la porta del Dinamis fu violata quattro volte e, sul tre a zero, un secco radente da fuori area uscito dal destro dell’otto avversario, passando sotto la pancia del portiere, centrò in pieno la bottiglia di Ouzo. Incurante dei vetri, Orson si rotolò sulla linea di porta, sentì l’odore dell’alcol, della terra, poi del sangue, si rialzò per togliere la palla dalla rete e l’occhio cadde sul biglietto insudiciato dai quattro gol. Mentre i compagni risalivano a centrocampo, il portiere del Dinamis si afferrò mani alla rete e scoppiò a piangere e a vomitare.

La sera dopo, la madre di Orson, vedendolo così distante, cercò di tornare sulla partita perduta. Ragazzo mio – disse – la responsabilità è anche di quei due caproni dei tuoi difensori, che vanno a giocare sempre ubriachi fradici. Quelli non hanno rispetto per l’alcol, non fanno come te che mandi giù un goccio solo quando c’è davanti un avversario da intimidire. Smettila, mamma! – urlò il ragazzo – Io in campo non bevo per intimidire qualcuno, ma per essere più lucido nei momenti difficili, e così pure gli altri, ma io posso mandare giù un sorso a gioco fermo perché ho la porta in cui tenere la bottiglia, mentre gli altri come potrebbero fare, dal momento che devono correre per il campo? Perciò è ovvio che gli altri bevano nello spogliatoio tutto quello che riescono a mandar giù! La poverina restò in silenzio, poi riempì i bicchieri e brindò alle parate future.

Orson continuò per anni a militare nel Dinamis, attraversando stagioni altalenanti, retrocessioni e promozioni dalla quarta divisione, alternando voli spettacolari a papere imperdonabili, giocandosela contro tutti i calciatori veri o presunti che transumavano tra i campi di gioco della Tessaglia. Un giorno, avrà avuto venticinque anni ed era una delle bandiere del Dinamis, andò al cinema con alcuni compagni a vedere il film-feticcio del padre e durante la proiezione si accorse che Kostas e Gennados, il suo vice e l’ala destra, stavano dormendo da un pezzo. Finito il film, Orson, serissimo, si avvicinò al secondo portiere ed esclamò: “Tu e Gennados avete ronfato come maiali, mi avete rovinato il film, che però è rimasto lo stesso, restandosene lontanissimo, in una grazia occultata”. Kostas lo guardò con occhi sperduti e si disse che un giorno avrebbe scalzato dalla porta quel tipo strano.

Il football per Orson era un po’ per volta diventato ciò che per suo padre era stato Citizen Kane, un’ossessione senza mirino, un bisogno di cui aver bisogno, una disciplina in cui riconoscere la possibilità di essere senza macchia e senza paura. E se poi venivano sei sconfitte di fila in pieno inverno, Orson ci stava male e beveva più del solito, magari arrivava alle mani con i compagni meno incisivi o con quelli che disertavano le sedute di studio tattico del prossimo avversario, ma mai, proprio mai e per nulla al mondo avrebbe pensato che un po’ di batoste potesse togliere qualcosa alla bellezza che respirava o contraddire in qualche modo la purezza del mondo che urlava dentro il rettangolo di gioco. Non credo – disse una volta prima di uscire dagli spogliatoi, quando ormai era il vecchio totem della squadra – che tra il giocare e il vincere ci sia una differenza. Entrambi sono vittoria su qualcosa di meno voluto, entrambi sono sconfitta per qualcosa di più necessario. Tra poco sarete a centrocampo e il fischio d’inizio sarà il soffio della grazia! Un po’ in disparte, Kostas prese i guantoni da portare in panchina e tra sé e sé biascicò: “A fine stagione ti chiudo la bara, Castano”. (1 – continua)

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