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Ho amato Gomorra, Napoli non ha bisogno di difese ideologiche

Ho amato Gomorra, Napoli non ha bisogno di difese ideologiche

Negli ultimi due anni, circa, è andata formandosi in me l’impressione di un nuovo fermento cittadino a Napoli. Come tutte le impressioni, questa non fa eccezione ed è certamente anche frutto del caso o della banale tendenza umana a rendere universali significati puramente personali, dunque privi di qualunque oggettività. Ciononostante, due sono stati gli elementi simbolici di questo mio progressivo cambio di prospettiva: la venuta di Rafa Benitez a Napoli e la messa in onda della serie Gomorra.

Sul primo ho manifestato largamente il mio pensiero – un intellettuale prestato al calcio – ed ho poco da aggiungere se non che abbia dimostrato che un percorso di lavoro sofisticato e strutturalmente anticonformista sia non solo possibile a Napoli ma anche esaltante, visto che la città lo ha seguito con un coagulo pericoloso eppure potente di sentimenti contrastanti, assai diversi dal generale falso snobismo riservatogli da Milano (che oggi quello snobismo pare pagarlo profumatamente, ma queste sono altre storie). Sulla seconda: confesso di avere molto amato la serie prodotta da Sky. Ho visto nel Saviano di Gomorra un giovane di indubbio coraggio – lo vedo assai più debole quando si avventura oggi in esegesi di Camus e Costituzione, ma anche queste sono altre storie -, ho ammirato nel film di Garrone una autentica opera d’arte e nella fiction un prodotto completamente innovativo per il mercato italiano ed altamente spendibile all’estero. Della serie Gomorra hanno parlato tutti in Europa ed oltre, ne attendono il seguito, ne discutono dialoghi, senso, intrighi, sulle strade di Via Bakù come alle fermate della metro di Londra.

Questi due fenomeni apparentemente non correlati presentano delle interessanti analogie. Anzitutto la loro a-sistematicità. Così come il corso iniziato dal tecnico spagnolo, oggi splendidamente maturato nel sarrismo, è stato frutto della indiscussa astuzia di un presidente in cerca di un buon colpo e della necessità di innovare per sopravvivere a livelli importanti, anche la serie Gomorra ha aperto per ovvi motivi di marketing luoghi dell’anima che non aveva pianificato di sfiorare. Al di là della questione estetica, si sono rivoltate amministrazioni, si sono armati i difensori civici, si sono innalzate barricate ideologiche. Le nostre.

Personalmente ritengo esistano alla base di questa polemica (anche qui con qualche similitudine con l’esperienza rafaelita a Napoli) un equivoco semantico ed una valutazione troppo paternalistica. Partiamo dall’equivoco: Gomorra non parla di Napoli. La tratta semmai come uno sfondo, ma non le dà alcuna valenza storica. La usa, certo, ma non più di quanto Breaking Bad faccia con Albuquerque, Narcos con la Colombia o persino i Demoni di Dostojevski con San Pietroburgo. Gomorra tratta anzitutto di sentimenti umani enormi ma assai poco dibattuti, come ad esempio l’odio, e dell’economia umana che essi richiedono e stabiliscono dentro e fuori di noi. È chiaro che, nel farlo, parta da un riferimento reale, ma chiedere di estirpare questo riferimento sarebbe come chiedere di distruggere le pellicole de Il Padrino per impedire che quel mio ex collega inglese parta alla volta della Sicilia per andare a visitare i luoghi dove è cresciuto Don Corleone anziché preferire un giro al teatro di Taormina. Se scegliamo questa china poi alla prossima occasione chiuderemo EuroDisney per impedire che la gente lo preferisca al Louvre dicendo poi di aver visitato Parigi. Il che ci indurrebbe a pensare che non sia la serie il problema, come non lo sono il capolavoro di Coppola o quello di Dostojevski, opere d’arte che dunque devono rispondere solo a criteri estetici e su cui nulla possono le discettazioni etiche, quanto invece l’indotto un po’ straccione che queste opere generano, la paccottiglia che trae nutrimento da esse e da cui – questo sì – gli abitanti locali spesso traggono vita a sbafo, quando all’aperto condannano e in gran segreto si sognano protagonisti delle peggiori guapparie.

La valutazione paternalistica, invece, ritengo sia la seguente: non è disdicevole che Napoli parli anche del male, perché essa ne è indubbiamente attraversata. È un male complesso, a volte nascosto a volte manifesto, certamente mefitico, che provoca spesso assuefazione, disperazione ed infine fatalismo, ma anche disincanto ed un senso laico dell’esistenza. Il mondo è anche il male ed è una grande fortuna poter vivere anche questa esperienza alla luce del sole per imparare a riconoscerla dentro di sé, incubata, dormiente o in azione, senza lo sterile perbenismo del salotto buono. In questo Napoli è una esperienza ancora postmoderna che molto può dire in tempi in cui si fatica ad integrare le comunità di persone diverse perché si continua a pensare che l’assenza coatta di conflitti umani (ovvero il paternalismo) porti magicamente la pace.

Per tale ragione io osteggio qualunque difesa della città, a cominciare da quel famoso coro allo stadio che canto per dovere di tifo ma che mi rappresenta assai poco. Finché esistono, infatti, arte e chi la produce non c’è alcuna difesa d’ufficio che non risulti stucchevole o ridicola. Anzi è meglio allentare le morse e incentivare l’assenza di un sistema culturale e la mancanza di una struttura precostituita, specie in una realtà così magmatica e in un certo senso amorfa quale quella di Napoli. E, oserei dire, del mondo, che spesso in questi anni vediamo affannarsi a trovare un modello per fenomeni globali ed ingestibili, da disegnare a tavolino sulle base di improbabili proiezioni statistiche, mentre la storia puntualmente se ne infischia e se ne va dove gli garba lasciando tutti con un palmo di naso, privi della capacità necessaria di imparare ed adattarsi in itinere.

Insomma, gettiamo le armi. Non dobbiamo certo essere noi a difendere il gol a giro di Higuaìn o la Biblioteca dei Girolamini. Sono, da sempre, loro a custodire noi.

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