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Una bambina di sette anni e le memorie del sottosuolo di Napoli, città “poor but cool”

Una bambina di sette anni e le memorie del sottosuolo di Napoli, città “poor but cool”

Un po’ per il gusto di cambiare, un po’ per spirito di contraddizione – e un po’ per dare forza al mio primo auspicio del Duemilasedici, ossia quello di poter dimenticare questa ossessione per i lungomari a tutti i costi per assistere magari a una campagna per le Comunali in cui ci si possa confrontare anche su altro – ho deciso di passare i primi giorni del nuovo anno e gli ultimi del precedente a Napoli, ma sottoterra. A visitare, con i miei piccoli, il sottosuolo della città. Delle tante esperienze eccezionali, una su tutte credo nessuno di chi era con me potrà dimenticarla: quella scritta “NOI VIVI”, illuminata dalla flebile torcia di una delle nostre bravissime guide, graffitata in cubitale sulla parete di una ex cisterna greco romana poi divenuta rifugio antiaereo per i civili durante la Seconda Guerra Mondiale. Solchi lunghi e incerti opera di mani grate incredule e sopravvissute ai grandi bombardamenti del ’43 su una città stremata dalla fame, imbottigliata in comunità sotterranee di centinaia e centinaia, stipati a decine di metri sotto il suolo, qualche cesso da condividere in migliaia, qualche sparuto rinale, fiumi di liquami sotto il suolo che esalano vapori mortiferi, fili con dodici volt a vista che corrono per i cunicoli, e poi le storie luminose dei vecchi di oggi che allora, ragazzini in quei rifugi, giocavano a pallone. Il football a Napoli è nato sotto terra. Sopra vomitavano fuoco le fortezze volanti, sotto i figli giocavano a pallone.

La mia, di figlia, settenne, che ha vissuto queste escursioni come precipitata all’improvviso in un film straordinario, il giorno dopo ha mandato un audiomessaggio ad una compagna di classe, su in Germania. Ho origliato raccontarle che a Neapel c’è un enorme museo sotto la terra, der richtig cool ist, “che è davvero cool”. Mi sarebbe piaciuto raccontarlo, anche solo a uno di quei tenaci disgraziati abbracciati in quei cimiteri di viventi, che di lì a qualche decennio una ragazzina li avrebbe chiamati cool, l’aggettivo internazionale che i compagni di scuola di tutto il mondo usano per descrivere il nuovo modello di iPhone, l’ultimo concerto di Lady Gaga, la foto in macchina di Ryan Gosling. È una vittoria al novantaduesimo per i ragazzini che giocavano al football negli ex tunnel borbonici, figli di uomini e donne accatastati che non avevano altro da scrivere, dal desertificato centro della terra, se non che erano banalmente ma fottutamente vivi.

Il mio secondo auspicio dell’anno, dunque, è prendere questa coolness e rilanciarla nel nostro futuro. Il termine cool è chiaro e riconoscibile nella sua modernità e racchiude qualcosa di sensuale. Ed in effetti c’è qualcosa di inspiegabilmente sensuale tra quelle pareti di tufo che sembrano trasudare una umidità vitale, conservando un movimento tellurico permanente, un terremoto di pulsioni largamente incontrollabili. Perché il destino pareva essere scritto e segnato, nel ’43, per questa città, eppure alla fine tra i bombardieri e il football ha vinto il football. E gli intrichi di queste cronache, sempre sulla traiettoria incerta di un pallone, sprigionano una potenza sensuale enorme, anche per una bambina. Una potenza che non possiamo permetterci di smarrire. L’auspicio è che in ogni casa ci si metta in ascolto di questo sottosuolo, con il sismografo corretto, e si usi il dizionario giusto per leggerlo e declinarlo con la lingua del domani. Questo sottosuolo è poco posh, ha quasi nulla del racconto da copertina patinata, della lucentezza del satinato, del mondano per il mondano. Gli scampati ai bombardamenti hanno mostrato il coraggio dei disperati, la faccia sporca del sopravvissuto per caso che grida al cielo di esserci, e questa è l’essenza di una città “Poor but cool”. È un marchio di vita che un ragazzino del Duemilasedici, nato in qualunque parte del mondo, sa riconoscere.

Tale potenza evocativa non ha bisogno di nessun comune di appartenenza. Questo è il mio ultimo auspicio: basta col feticcio della maglia, lo spirito d’appartenenza, la retorica identitaria, la storia trita dell’orgoglio. Roba noiosissima. Una città che si è difesa dai bombardamenti giocando a calcio a quaranta metri di profondità non ha bisogno di nessun canto di difesa. È una città che gioca all’attacco, o non gioca. Che usa la lingua del domani, o non parla. Che scivola e si nasconde per i canali di scolo ma i conti col mondo li fa sempre nei minuti di recupero. Chiede solo la pazienza e la forza d’animo di saper aspettare, di ascoltare la sirena della contraerea senza sbroccare ma raccogliendo quel che resta del nostro coraggio per non dichiararci già sconfitti dalla paura, e stare assieme. Sotto terra c’è sempre qualcuno disperato quanto noi col quale giocare al football. E scrivere – sul muro, se necessario – che siamo vivi.

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