In questi giorni a Los Angeles la Fiat presenta in grande stile la nuova 124 Spider. E mentre nel resto del mondo c’è chi apprende la notizia come una tra le tante, con la curiosità di un appassionato o l’attenzione dell’addetto ai lavori, a Napoli la rinascita di questo modello evoca un intero altro mondo.
La 124 Spider – quella che “si nun era Spider nun era bbona” – è divenuta un simbolo potentissimo da quando due straordinari attori, Tommaso Bianco e Enzo Cannavale, hanno ritagliato una parte memorabile in uno dei film meno fortunati di Luciano De Crescenzo, “32 Dicembre”. E, come nell’arte spesso accade, è una fortuna essere poco fortunati. Perché molte delle fatiche dell’autore napoletano sono entrate, anche al di là delle originarie intenzioni, nel mortifero circo del folklore cittadino, sminuzzate nella centrifuga dei luoghi comuni che i napoletani amano cucirsi addosso. Qui, invece, l’evanescenza del film di De Crescenzo aiuta a sfumare lentamente l’involucro di questi cinque minuti di cinema, li sottraggono a tempo e spazio, li rendono una autentica macchina scenica a sé stante, dotata di meccanismi propri e brillante di vita autonoma.
Il plot ha quella vasta profondità che fa agio su poche e apparentemente semplici travi, tipica di una parabola: due fratelli; del primo il nome non si saprà mai, il secondo si chiama Alfonso, impersonati rispettivamente da Bianco e Cannavale; sangue dello stesso sangue, in passato hanno ricevuto un’eredità. Il primo, oculato, con la testa piantata sul collo, ha saputo attendere con la lungimiranza di chi pensa al futuro e quella cifra l’ha fatta fruttare, mettendo su famiglia e figli e concedendo loro un rispettabile e borghesissimo benessere; Alfonso, invece, figliol prodigo, in pochi anni ha sperperato tutto quanto gli era stato offerto, ha messo anche lui su famiglia e figli ma è rimasto squattrinato e pervicacemente disoccupato. Si avvicina l’ultimo dell’anno, a Napoli si accendono i fuochi. E il più dissestato dei due non ha una lira da spendere in botte a muro sicché, come ultima disperata risorsa, sceglie di mendicare una banconota da centomila lire al fratello. Sembra il solito accademico canovaccio, ma ecco svelarsi un intrico più profondo ed ignoto di quello evidente agli spettatori, come in un gioco di specchi che compaiono all’improvviso e ridefiniscono gli orizzonti. Si viene a sapere che questa storia della richiesta di danari operata dal fratello scialacquatore nei confronti di quello oculato si è ripetuta migliaia di volte negli anni. Forse si ripete da sempre. E, come ogni volta, è necessario imbastire un teatro che renda sacro questo eterno ritorno, come in una cresima al contrario: bisogna chiamare i vicini, i parenti, gli amici a formare un’assemblea al cui cospetto, in un rito di iniziazione, si possa mettere alla prova il fratello questuante che, sfidato a una mezz’ora di ricordi lancinanti che ripercorrono ogni sprezzante rifiuto da lui riservato in passato agli accorati consigli del fratello saggio, dovrà chiosare con un “Sono un imbecille” ciascun episodio recitato e rivissuto dinanzi alla platea, come in una rosario, un teatro del macabro, un amen che sancisce i tempi di una preghiera morta.
Durante questa orazione si cita e nasce la protagonista nascosta di questo racconto – quasi una Venere del Botticelli in copertoni e interni in pelle che sorge da una discarica. La 124 Spider, l’auto acquistata con i danari sudati dal padre e gettati al vento da Alfonso, che in nome di quella Spider e dei suoi cavalli nel motore ha rifiutato indignato il lavoro procurato con provvidente coscienziosità dal fratello: la natura di impiegato all’Osservatorio astronomico di Capodimonte e quella di pilota di 124 Spider sono ontologicamente incompatibili. Non ci si lega le mani alla umiliante fatica di un impiego se quelle mani ruotano il volante aggressivo di un’auto che viene costruita per liberare gli uomini che la guidano – o concedere loro la seducente illusione di essere liberi
Alfonso non ce la farà, rimarrà travolto dal fuoco fraterno lasciando le centomila lire sul tavolo, a un pugno di minuti dalla propria vittoria. È una storia breve, contenuta, con pochi personaggi conosciuti appena eppure capaci di una gamma straordinaria di modulazioni dell’animo – la consanguineità, il padre e il suo peccato originale, l’odio, il sentimento di rivalsa, l’elemosina, il desiderio segreto di schiacciare il prossimo e di farlo gridando. È un mito aperto, non didascalico, senza vincitori né vinti, quasi come in un racconto di Cechov – è la rappresentazione di ciò che è l’uomo, senza analisi ulteriori; ed è quasi un ideale contraltare alla parabola evangelica, un suo gemello debole, la medesima storia del figliol prodigo nella quale però si sia fatta detonare una bomba di Maradona.
È un racconto splendido perché indica il vero tesoro che dobbiamo impegnarci a conservare nella nostra città, sparsa ormai nel mondo. Ed è la sua laicità – la capacità di aprirsi il ventre con un coltello e guardarsi le viscere, senza che il dolore che necessariamente ne deriva costringa a smarrire la lucidità richiesta a deporlo su un letto di risate fuori luogo, risate profonde ma squillanti, sapienti ma scostumate. Le risate che servono a guardarci allo specchio senza infingimenti. È la laicità di Napoli, che è una città libera, da qualche parte, in qualche rivolo sotterraneo ormai travolto dalle macerie. Ma pur sempre un rivolo di acqua limpida. La laicità che controbatte al politicamente corretto di chi si ostina a cambiare le grammatiche e i dizionari sperando che mutando i lemmi e le loro regole di costruzione mutino geneticamente le cose, e magari i fratelli nel finale si riconoscano e si aiutino, il benestante decida infine di desistere e concedere quel danaro in totale gratuità e lo straccione raduni un minimo di orgoglio per avere la faccia di tornare a casa dai figli con un impiego. Ma sono loro. Siamo noi. È la 124 spider.
“Noi rappresentiamo la vita così com’è, punto e basta. Più in là non ci farete andare, nemmeno con la frusta”.
Raniero Virgilio