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«Giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto». Maradona secondo Galeano

«Giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto». Maradona secondo Galeano

Come tutti gli uruguagi voleva essere un calciatore, lo divenne sulla carta nelle storie che ha raccontato, sui campi gli andò male. Eduardo Galeano nelle pagine sta a Osvaldo Soriano come Pelé sta a Maradona, se la giocano in funzione del tifoso che li guarda. Nato a Montevideo tifava Nacional ma non gli riusciva di odiare né Juan Alberto Schiaffino né Julio César Abbadie che giocavano nel Peñarol: il primo «con i suoi passaggi magistrali orchestrava il gioco della squadra come se stesse osservando il campo dal punto più alto della torre dello stadio» e il secondo: «faceva scorrere la palla sulla linea bianca laterale e si lanciava con gli stivali delle sette leghe distendendosi senza sfiorare il pallone né toccare i propri avversari », e alla fine Galeano non riusciva ad essere nemmeno uno di quei tifosi capaci di odiare, diventando solo un “mendicante di buon calcio”, diceva: «vado per il mondo col cappello in mano e negli stadi supplico: una bella giocata».

E stadio dopo stadio, partita dopo partita, bella giocata dopo bella giocata ha scritto: “Splendori e miserie del gioco del calcio” dove ci sono tutti da Zamora – «Lo chiamavano el Divino. Per vent’anni fu il miglior portiere del mondo. Gli piaceva il cognac e fumava tre pacchetti di sigarette al giorno» – a Baggio – «il suo calcio possiede un mistero: le gambe pensano per conto loro, il piede spara da solo, gli occhi vedono i gol prima che questi si materializzino», da Garrincha – «il campo da gioco era una posta da circo, il pallone un animale ammaestrato, la partita era l’invito a una festa. Garrincha non si lasciava soffiare la palla, bambino che difendeva il suo giocattolo; la palla e lui compivano diavolerie che facevano morire dal ridere la gente: lui saltava su di lei, lei si arrampicava su di lui, lei si nascondeva, lui scappava, lei lo rincorreva. Lungo la strada, gli avversari si scontravano tra di loro, le loro gambe si intrecciavano, avevano mal di mare, cadevano a terra seduti. Garrincha esercitava le sue astuzie da malandrino ai bordi del campo, sul confine destro, lontano dal centro: cresciuto nelle periferie, in periferia giocava» – a Di Stefano – «tutto il campo entrava nelle sue scarpe. Il campo nasceva dai suoi piedi e dai suoi piedi cresceva» – da Yashin – «si ritirò dal calcio molte volte, sempre inseguito dalle acclamazioni di gratitudine, e varie volte tornò. Un altro come lui non c’era. In più di un quarto di secolo, il portiere russo parò più di cento rigori e salvò chissà quanti gol già fatti. Quando gli chiesero quale fosse il suo segreto, rispose che la formula consisteva nel fumare una sigaretta per calmarsi i nervi e buttare giù un bicchiere di roba forte per tonificarsi i muscoli» – a Samitier – «spiccava per astuzia, il dominio del pallone, l’assoluta mancanza di rispetto per le regole della logica e l’olimpico disprezzo per le frontiere dello spazio e del tempo» – da Moreno – «il più amato tra i giocatori della Máquina del River, godeva nel depistare: le sue gambe da pirata si lanciavano di qua e se ne andavano di là, la sua testa da bandito prometteva il gol a un palo e lo inchiodava nell’altro» – a Cruyff – «Questo elettrico magrolino era entrato nelle file dell’Ajax quando era ancora bambino: mentre sua madre lavorava nella taverna del club, lui raccoglieva i palloni che finivano fuori, lucidava le scarpe dei giocatori, collocava le bandierine agli angoli del campo e faceva tutto quello che gli chiedevano e niente di quello che gli ordinavano. Quando glielo permisero, non smise più. Ancora ragazzo debuttò nella nazionale olandese, giocò stupendamente, segnò un gol e fece svenire l’arbitro con un cazzotto» – da Pelé – «passava attraverso gli avversari come un coltello. Quando si fermava, gli avversari si perdevano nei labirinti che le sue gambe disegnavano. Quando saltava, saliva nell’aria come se l’aria fosse una scala. Quando batteva un tiro da fermo, gli avversari che formavano la barriera avevano voglia di piazzarsi alla rovescia, con la faccia rivolta alla porta, per non perdersi il golazo – a Maradona la cui parabola è sintetizzata in un rigo: «Giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto».

Poi ci sono i mondiali e i gol, e tutto quello che ruota intorno al calcio dalla palla al potere, con un mucchio di storie divertenti alcune così vere da sembrare false ed altre così false da apparire vere. «Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l’arte dell’imprevisto». Eduardo Galeano scriveva di calcio con una semplicità e un coinvolgimento che è impossibile ritrovare. Guardava i mondi che si muovevano con i calciatori, le loro biografie e le direzioni che prendevano, e aspettava che arrivasse lo stupore. Dimenticando tutte le cose che prometteva a Dio aspettando il gol, e per questo non poteva mantenerle. Ogni volta che lo leggo penso alla teologa tedesca Dorothee Solle che quando le chiesero: «Come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?» Rispose: «Non glielo spiegherei, gli darei un pallone».
Marco Ciriello

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