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Nevio Scala: «In Italia il calcio è astio e contrapposizione. In Germania è una festa, i fischi sono una rarità. Ammiro Benitez e il suo stile. Gravi le parole di Conte su Balotelli»

Nevio Scala: «In Italia il calcio è astio e contrapposizione. In Germania è una festa, i fischi sono una rarità. Ammiro Benitez e il suo stile. Gravi le parole di Conte su Balotelli»

Nevio Scala. Un signore che coltiva tabacco e che più di vent’anni fa riportò il centravanti tattico nel calcio italiano. Altro che falso nueve. Il suo Parma divertiva e vinceva. Furono convocati in massa da Arrigo Sacchi ai Mondiali del 94.  Nella sua bacheca di allenatore ci sono una Coppa delle Coppe, una Coppa Uefa, una Supercoppa Uefa (tutte col Parma) e anche un’Intercontinentale vinta col Borussia Dortmund nel 1997. Da noi non allena ormai da 17 anni, l’ultima esperienza furono pochi mesi a Perugia, poi è stato in Germania appunto, in Turchia, Ucraina e Russia. Lo abbiamo contattato a Lozzo Atesino, provincia di Padova, dove vive. 

Buongiorno Scala, volevamo parlare con lei di calcio, non di tattica o moduli, ma di cultura del calcio.  
Ride. «Forse avete sbagliato persona allora». 

Lei ha vissuto il calcio all’estero e soprattutto in Germania, a Dortmund. Venerdì abbiamo guardato la partita del Borussia, che era ultimo in classifica, abbiamo visto la festa, gli sbandieratori in campo prima del fischio d’inizio e lo stadio pieno, lei che è stato su quella panchina e conosce l’ambiente, ci può spiegare in cosa differisce dal nostro? 
«Vede, è un discorso di cultura, non solo sportiva, e di educazione alla cultura. In Italia viviamo una situazione generale di degrado, la popolazione avverte questa situazione di disagio e di conseguenza la fa sua e finisce con l’esternare il malessere in situazioni non ideali, come allo stadio. Sono convinto che molte persone che vivono una situazione di difficoltà, e sentono e leggono della condizione generale poco piacevole che viviamo, poi arrivino allo stadio e sfoghino lì frustrazioni che poco hanno a che fare col calcio».

Quindi sono motivi extracalcistici?
«Beh no, questa è la cornice. Ma quando parlo di cultura, parlo anche di cultura sportiva. In Germania si tifa per la propria squadra, non gridano mai contro i tifosi avversari. Guardano il campo e la partita, i tifosi avversari non esistono. Quando ero sulla panchina del Borussia non ho mai sentito gridare il corrispettivo (mi scusi l’espressione) di “Milan vaffanculo” o “Inter vaffanculo” e questa è educazione. Un’educazione che non c’è solo nello sport e che parte da lontano, cresce nelle famiglie.

Perché a Dortmund i tifosi accorrono a sostenere la propria squadra ultima e qui il Napoli terzo in classifica gioca con uno stadio semivuoto e tra i fischi? Domenica, al momento della sostituzione, hanno persino fischiato Hamsik, il capitano. 
Un episodio del genere in Germania non me lo ricordo. Se si fischia, raramente, si fischia a fine partita. La differenza più grande tra Italia e Germania è che lì il calcio è una festa, si va allo stadio per divertirsi, bere una birra e vedere la propria squadra che gioca. Certo anche lì ci sono minoranze che trasgrediscono, ma nessuno ne parla e le esalta e quindi il protagonista non vedendosi osannato non ha interesse a ripetere la performance.  

Quindi anche giornali e tv contribuiscano ad alimentare questo clima?
Non metto tutti i giornalisti in un sacco, cioè non si può parlare di tutti allo stesso modo, ce ne sono di straordinari con cui io avevo uno splendido rapporto ed altri che invece cercano lo scontro a tutti i costi. In Germania una volta usciti dallo stadio non c’è questo accanimento che abbiamo in Italia. La partita finisce al 90esimo. Noi abbiamo cinque o sei testate che si occupano solo di sport, i tedeschi hanno la pagina sportiva all’interno dei quotidiani, una pagina che racchiude tutto quello che accade, può già capire la differenza. Poi la moviola esiste, ma in maniera serena, per illustrare e raccontare. Le racconto una cosa che da sola spiega quanto siano diversi i due modi di concepire il calcio. Quando ero al Dortmund,  la conferenza stampa a fine partita si faceva con i due allenatori insieme, fianco a fianco. Si parlava della partita e si rispondeva alle domande, c’era l’analisi dell’incontro ma in maniera molto serena. Qui da noi anche gli allenatori discutono tra di loro e si accusano a fine gara.

Non abbiamo speranza…
La speranza c’è sempre, per carità. Certo, occorre la volontà di ripartire non dico da zero ma quasi. Il sistema calcio dovrebbe ripensarsi, magari partendo dall’uso delle tecnologie. Non è semplice. Anche noi allenatori e i giocatori abbiamo grandi responsabilità. C’è troppo astio. E non solo. Le faccio un esempio. Se io Antonio Conte, allenatore della Nazionale, dico che non ho tempo per Balotelli, sto sbagliando. È un’affermazione gravissima. Io allenatore ho il compito e il dovere di seguire un giocatore e fargli dare il massimo che può. Ormai vorremmo tutto e subito, ma per raggiungere un traguardo bisogna partire dalle fondamenta e non si può avere fretta.

“Sin prisa pero sin pausa” allora, come dice Rafa Benitez?
È una gran bella persona Benitez. Ho uno splendido ricordo personale di lui. Allenavo lo Shakhtar Donetsk e fui ospite nel suo campo di allenamento. All’epoca era al Valencia e ci diede ospitalità nel suo centro senza conoscerci e con grande disponibilità. Lo apprezzo molto quando lo ascolto parlare nel dopo-partita, così sereno e così consapevole che la strada intrapresa dal calcio italiano è quella sbagliata. Lui non attacca nessuno, non solleva polveroni, ma cerca con piccole dichiarazioni di far capire qual è la strada giusta.  

Quindi lei è d’accordo con Benitez e col suo modo di intendere il calcio quando dice che bisogna essere uniti, che la squadra ha bisogno di tutti per dare il massimo.
Che bello se fossimo tutti Benitez! E quanto sarebbe sereno il mondo del calcio se non ci fossero intolleranza e cattiveria all’interno e all’esterno dello stadio, ma di Benitez ce n’è uno, forse due o tre. 

Non a caso una delle accuse più ricorrenti che gli muovono è di non essere adatto al calcio italiano.
Prima di tutto le dirò che io credo che l’allenatore in alcuni casi è fondamentale e in altri non serve a nulla. Benitez è il mio allenatore ideale in questo senso, come comportamento, immagine e sensazione, poi non posso giudicarlo come tecnico e come lavora. In Italia si parla troppo di numeri e di moduli. Un allenatore guarda in faccia il proprio giocatore e lo capisce, e Benitez possiede questa grande capacità psicologica nel valutare. Se poi non ha una squadra forte o una società in grado di distribuire bene le responsabilità non può certo fare miracoli, ma è grado di fare la cosa più importante. Il 4-4-2, il 5-3-2, il 4-3-2-1 vengono dopo, la cosa più importante per un allenatore è riuscire ad instaurare un rapporto con i suoi giocatori e fargli dare il massimo e questo a Benitez di certo non manca.

Tornerebbe ad allenare in Italia? 
Mi farebbe piacere, anche se ogni qual volta manifesto questo desiderio, in famiglia mi dissuadono, mi dicono: “ma chi te lo fa fare”. Per fortuna parlo un po’ di lingue, anche buongiorno e buonasera in russo, ma mi piacerebbe tornare in Italia e spiegare in italiano la mia filosofia del calcio e sono certo che potrei ottenere qualcosa. Ma non vado in cerca, se succede sono pronto e non ho mai detto di no. Vorrei sedermi a un tavolo con chi mi dica semplicemente “abbiamo bisogno di lei”, poi non mi importa che ci sia chissà quale progetto, io alleno i calciatori e mi ritengo responsabile dei comportamenti e del lavoro dei miei giocatori.

Lo salutiamo e lui ci dice: «Se ha l’occasione di incontrare Benitez, gli dia un in bocca al lupo e un saluto da parte di Nevio».
Francesca Leva 

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