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Il modello Pallotta, uno che il calcio italiano non lo vuole capire

Il modello Pallotta, uno che il calcio italiano non lo vuole capire

Bisogna confessare che dopo aver letto l’intervista concessa da James Pallotta alla Gazzetta dello Sport un po’ di invidia ci è venuta. A dire il vero anche tanta. Il numero uno della Roma interviene quattro giorni dopo la tanto discussa partita contro la Juventus e lo fa per portare avanti il suo disegno di diversità culturale. Con garbo e fermezza, Pallotta imbocca una strada in direzione diametralmente opposta a quella fin qui percorsa dall’ambiente giallorosso, allenatore e capitano in testa. Ma non polemizzato, indica una strada, la sua visione. Non a caso, non cita mai l’arbitro Rocchi. 

Già alle prime righe la Gazzetta riporta una notizia che non ci mette di buon umore. Pallotta è a Londra per partecipare a “The Sport Business Summit”. La Roma non è la sola partecipante italiana, ci sono anche Juventus, Inter e Milan. Il Napoli non c’è.

Pallotta afferma che «allo Juventus Stadium non c’è stata la guerra mondiale ma solo una partita con degli errori arbitrali. La sconfitta non ci rende mai felici ma va accettata. Da società, staff e tifosi». E queste poche parole, da sole, basterebbero. Potete tranquillamente immaginare che cosa si sia detto e respirato a Roma in questi giorni; è bastato seguire qualche trasmissione tv, anche a livello nazionale, e dare uno sguardo alle prime pagine di qualche quotidiano. Pallotta, di fatto, rompe una consuetudine che nel calcio italiano – a memoria – non ha conosciuto eccezioni. Se pensate che appena la settimana scorsa la Juventus ha risposto ufficialmente all’account twitter dell’Atletico Madrid per ricordare che i suoi scudetti sono 32 e non 30 (come invece stabilito dalla giustizia sportiva, che piaccia o meno).

Pallotta dimostra – e siamo all’analisi di appena quattro righe – di avere ben chiaro dove vuole arrivare con il brand Roma. Ben al di là delle pastoie arbitrali e del “calcio italiano”. Pallotta ha acquistato il marchio Roma, simbolo di bellezza, storia e cultura. E quindi anche sportività. Ha acquistato il marchio che ha vinto l’ultimo Premio Oscar, ha comprato “La Grande bellezza” e non ha certo voglia di perder tempo a discettare di Turone e dell’arbitro Bergamo.

Pallotta ha le idee chiare anche in relazione al modello che vorrebbe applicare per la sua Roma. «Qualcosa che mi ha deluso della partita c’è – dice al giornalista -. Quello che è successo dalle partite della nostra panchina: penso agli insulti a Ljiajic e Strootman o agli schiaffi ai ragazzi dello staff. Questo non va bene, non è sport. Ma quello che è successo non vuol dire che tutto questo sia la Juventus, ma soltanto che c’erano proprio quelle 5-6 mele marce. Quella gente lì deve essere messa fuori dagli stadi, restarci fuori e non tornarci mai più. Non esistono altre strade». Revolution Road. Ne parla anche quando gli chiedono del nuovo stadio della Roma: «Speriamo di iniziare a costruirlo entro sei mesi. Sarà sicuro, con un design moderno, orientato alle famiglie. Lavoreremo molto con la polizia, non vogliamo quelle famose mele marce. Ma servono telecamere ancora più ad alta definizione, per individuare subito i violenti e spedirli fuori per sempre». 

È un concetto molto caro a Pallotta. Concetto che nessun dirigente italiano ha mai enunciato (fatta eccezione per le frasi di circostanza dette all’indomani di ogni episodio di violenza riconducibile al calcio, frasi che poi sono puntualmente cadute nel vuoto). Non a caso, lo scorso anno uno dei pochi allenatori che parlò dell’importanza delle telecamere negli stadi anche per individuare i responsabili dei cori razzisti fu un certo Rafa Benitez. In Italia sappiamo com’è finita, di fatto con l’eliminazione del reato.

Si respira un’atmosfera di sport nel leggere l’intervista a Pallotta. È evidente che è figlio di un’altra cultura, quella americana, in cui è inconcepibile che ci si possa scannare per una partita di calcio, in cui lo sport è business e i clienti sono le famiglie. Accade così per il principale sport negli Stati Uniti: il baseball. Pallotta ha un altro passo rispetto al resto dei nostri dirigenti. E nel mazzo non può non esserci anche il nostro De Laurentiis. Si avverte che a Roma c’è un progetto. Di livello internazionale. E c’è una visione. I risultati verranno, o magari no, non subito, si vedrà (la Roma è una squadra attrezzata per vincere lo scudetto), ma l’orizzonte della società è chiaro. Il problema, il limite, anche per Roma, sarà l’ambiente. Ma una cosa è avere un allenatore che predica nel deserto, un’altra è avere un presidente che impone o tenta di imporre una visione alternativa al modello nostrano. Per Pallotta sarebbe sicuramente un merito “non capire il calcio italiano”. Perché la Roma è un brand che deve imporsi ben al di là dei confini nazionali. E lo dirà a Londra, al convegno. Mentre Napoli può solo leggerne i resconti.
Massimiliano Gallo

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