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“Safina e Ataya” e le navi quarantena nel Mediterraneo: una storia di umanità e nomi restituiti

Il libro di Alessia Belli sarà presentato a Napoli il 27 giugno. Il diario celebra una quotidianità di cura della vita che è pratica di comunità

“Safina e Ataya” e le navi quarantena nel Mediterraneo: una storia di umanità e nomi restituiti

Ancora una novità editoriale che Napoli – come polo di aggregazione culturale – recepisce. La casa editrice Dante&Descartes di Don Raimondo Di Maio dà alle stampe “Safina e Ataya (pagg. 104, euro 15), Nove mesi sul Mediterraneo a bordo delle ‘navi quarantena’” scritto dalla giovane autrice aretina Alessia Belli che lavora per l’EU Agency for Asylum (EUAA).

Il libro sarà presentato in anteprima il 27 giugno – ore 17.30 – alla Libreria The Spark Creative Hub Mondadori Bookstore (in Via degli Acquari – Piazza Borsa a Napoli) alla presenza dell’editore, dell’autrice e di Ismahan Hassan.

Safina è traslitterazione della parola araba che significa nave, mentre Ataya in lingua Wolof, indica il tè e il rituale ad esso legato, diffuso nell’Africa occidentale.

“Ci si siede intorno a un fornello, a gas o a carbone, attendendo tutti insieme, con calma, che il tè sia pronto, facendo chiacchiere. Viene poi versato bollente in un bicchierino di vetro e miscelato travasandolo più volte in un altro, dall’alto”.

Nel testo si è scritto il nome delle navi in corsivo, volendo così riconoscere il ruolo dei luoghi protagonisti della storia raccontata. Il diario celebra una quotidianità di cura della vita che è pratica di comunità. Accompagna lo sguardo verso quel mare infinito in attesa dei delfini, con il sole caldo sulla pelle. È la storia, appunto, dei nomi restituiti e dei contatti ritrovati di umanità.

“Mi chiamo Alessia. Ho desiderato salire sulle navi quarantena. Questa è stata la mia quotidianità. Ho tessuto relazioni, intrecciato i fili di ciò che per quegli esseri umani è famiglia, cercando di nutrire il loro legame con la vita; e, ho scoperto, anche il mio. Nel coagulo di emozioni chiuse in una manciata di giorni, dove la sofferenza e l’incertezza coesistono con l’eccitazione e la fiduciosa aspettativa, nel cuore di una pandemia, ho tenuto nelle mie mani miserie e desideri chiusi in corpi e sguardi tanto diversi quanto unici. Perché ripercorrere il senso e il valore di esserci stata è importante: per me, sicuramente; per riconoscere le persone che ho incontrato; e, forse, anche per noi”.

Il libro è scritto così – in prima persona – con una semplicità che sconcerta e che urta con il linguaggio odierno dei social. Bello il disegno della copertina che è di Nembist Pro. Il titolo che ha scelto per illustrarlo è Calabouche che significa il fallimento di un viaggio sul mare.

È una parola inventata che usavamo – conclude la Belli – quando non venivi recuperato da navi ONG, ma dai libici: questa immagine è ciò che ho visto quando ero a bordo della Nave Geo Barents (Medici Senza Frontiere), ormai in salvo. Davanti a me, un gommone in difficoltà, recuperato dai libici. Geo Barents è arrivata troppo tardi per procedere al salvataggio. Poteva soltanto assistere alle operazioni”.

Anche in quel momento il mare era calmo…

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