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La violenza ultras si serve del calcio perché è un’industria che non si può fermare

Attenti a sottovalutare la dimensione del fenomeno: c’è una rete di alleanze e c’è un grande palcoscenico. Trovare una soluzione non è facile ma è urgente

La violenza ultras si serve del calcio perché è un’industria che non si può fermare
Schalke supporters wave a flag shows "Ultras forever" during the German first division Bundesliga football match Schalke 04 vs 1. FSV Mainz 05 in Gelsenkirchen, western Germany on September 25, 2012. AFP PHOTO / PATRIK STOLLARZ RESTRICTIONS / EMBARGO - DFL RULES TO LIMIT THE ONLINE USAGE DURING MATCH TIME TO 15 PICTURES PER MATCH. IMAGE SEQUENCES TO SIMULATE VIDEO IS NOT ALLOWED AT ANY TIME. FOR FURTHER QUERIES PLEASE CONTACT DFL DIRECTLY AT + 49 69 650050. (Photo by PATRIK STOLLARZ / AFP)

È stata una cronaca di incidenti annunciati. In occasione della partita di calcio Napoli-Eintracht di Francoforte alcune centinaia di persone partono dalla Germania e vengono a Napoli senza biglietto. Qualunque individuo sano di mente è sconvolto per la guerriglia belluina andata in scena intorno a piazza del Gesù. Tutto prevedibile. Tutto inevitabile. Le forze dell’ordine costrette a limitarsi a contenere i danni evitando che venissero a contatto le contrapposte tifoserie. Per evitare che a subire gravi conseguenze fossero incolpevoli cittadini o stralunati turisti. Il fatto che ci sia stato un esiguo numero di feriti va ascritto alla professionalità delle forze dell’ordine.

Questa volta non mi pare bastino le analisi abituali per gli incidenti legati a una partita di calcio. Siamo di fronte ad un’orda di delinquenti che si sono mossi da casa loro esclusivamente per venire a menare le mani. Ben addestrati ad utilizzare tecniche di guerriglia urbana. Sapendo bene che allo stadio non sarebbero potuti entrare. Ai quali, in forza delle regole che governano le frontiere dei paesi europei, non era possibile vietare di venire a Napoli. Quindi tutti sanno che arrivano. Tutti sanno perché arrivano. Ma non c’è altro da fare che attendere il momento della violenza. Se possibile, dopo la sfida all’o.k. Corrall in autostrada tra napoletani e romanisti, mercoledì a Napoli si è realizzata una crescita di livello nella struttura degli scontri. Infatti la partecipazione a fianco dei delinquenti tedeschi di gruppi organizzati di delinquenti italiani provenienti da altre città desta allarme sulla dimensione criminale del fenomeno. Che assume in scala i contorni della vera e propria azione di guerra. Della quale è presente un classico requisito: una rete di alleanze. E un altro aspetto si mostra estremamente preoccupante. Non ci troviamo di fronte ad un gruppo di scalmanati che si mimetizzano tra migliaia di tifosi pacifici. Qui siamo di fronte a un micro esercito che rivendica pubblicamente la sua identità. Affrontato in campo aperto da un altro microesercito con analoghe caratteristiche. Insommaoccorre la massima allerta.

Diciamo la verità, chi ama il calcio si sente un minimo in colpa. Per avere contribuito a caricare un evento sportivo, pur sempre effimero, di significati artificiali. Ma anche per aver continuato a frequentare ed alimentare un mondo divenuto prigioniero di torbidi scenari di guerra. Ma quanta è la responsabilità del calcio nei suoi assetti sportivi, organizzativi ed affaristici nell’esplosione di simili episodi di violenza? Certamente ampia per quanto fino ad oggi è stato tollerato. Per la pochezza delle sue linee di indirizzo della quale da ultimo ha dato prova Ceferin con le sue dichiarazioni deliranti. Basta riflettere sui toni spesso adoperati in tv da dirigenti, tecnici e giocatori, sui cori e gli striscioni tollerati negli stadi, sui nomi dei gruppi organizzati evocanti violenza… Ma tutto ciò è sufficiente a spiegare il fatto che centinaia di persone si muovano da casa per venire qui a scatenare la guerra esponendosi a tutti i rischi propri delle battaglie? E che gruppi avversi accettino la sfida rusticana? Io penso di no.

Penso che il fenomeno abbia radici esterne al mondo del calcio. Il quale mondo è soltanto il palcoscenico di un malessere sociale dai contorni schizofrenici. Ma perché il calcio è diventato il campo di battaglia ideale? Credo che la risposta sia nel fatto che alla  violenza occorrono simboli. Occorre la rappresentazione del nemico. E nel calcio il nemico-simbolo è a portata di mano: il tifoso della squadra avversaria. O, forse ancor meglio, la polizia  che altro non può fare altro che tenere separati gli eserciti. (Come si fa a non pensare a Pasolini. Al suo io sto con i poliziotti?) Pensateci bene, al giorno d’oggi la violenza di gruppo cerca innanzitutto un palcoscenico. Ed il calcio è un grande palcoscenico, sul quale sono puntati i riflettori di tutti i media disponibili. Eppure il calcio non si può fermare. Perché muove l’emotività non violenta di milioni di persone. E perché è un’industria che produce lavoro per migliaia e migliaia di persone. E gira gira il problema diventa politico: non è più rinviabile un intervento legislativo che faccia da argine ad un mondo di delinquenti che vivono il loro tempo progettando espressioni di truce violenza. Non dico che sia facile trovare antidoti efficaci. Che facciano ricorso a forme di dissuasione repressiva. Ma certamente non si possono fare spallucce perché non sempre tutto si risolve senza gravi danni alle persone fisiche (anche se con danni non indifferenti a beni di privati ed onesti esercenti) come accaduto intorno a Piazza del Gesù.

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