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Fai possesso palla? Perdi la partita ma sei accettato socialmente

Dati impietosi in Qatar. L’ennesima sconfitta di un’ideologia dura a morire. In finale vanno due allenatori pratici e intelligenti

Fai possesso palla? Perdi la partita ma sei accettato socialmente
Spain's coach Luis Enrique reacts during the Qatar 2022 World Cup round of 16 football match between Morocco and Spain at the Education City Stadium in Al-Rayyan, west of Doha on December 6, 2022. (Photo by Glyn KIRK / AFP)

Dimmi che possesso palla fai e ti dirò quanto hai perso. I Mondiali in Qatar hanno reso legge per il possesso palla quel che Fantozzi coniò a proposito della corazza Potemkin: “è una cagata pazzesca”. Lì, nella celebre pellicola, seguirono 92 minuti di applausi. Nel calcio contemporaneo, invece, teste basse e qualcuno che fischietta con le mani dietro la schiena. Perché, come disse l’altro giorno il ct del Marocco Regragui: «Voi giornalisti sognate il possesso palla, il 60 o il 70%, vi piace». E poi giustamente azzannò quell’altra corazzata di Potemkin degli expected goals che è la trovata più simile alla statistica vista da Trilussa (quella scienza per cui se tu mangi un pollo intero e io niente, abbiamo mangiato mezzo pollo a testa): «Ci sono anche gli expected goals, che invenzione, che… Oh, abbiamo avuto 4 expected goals e abbiamo perso… Se hai il 70% di possesso palla e tiri due volte in porta, che senso ha? Chiederò a Infantino se può dare un punto o più per il possesso».

Si sa, la narrazione segue propri canali. Non c’è settore più anchilosato del giornalismo. Del tutto refrattario alla realtà. Chi si oppone alla new wave, è considerato un matusa. Anche se vive e lavora di calcio da quarant’anni, come Benitez che va in tv e numeri alla mano spiega perché l’ossessione per la costruzione dal basso non porta alcun beneficio. Viene trattato come un obsoleto. E stiamo parlando di Benitez. Ma torniamo al tema principale. Il Mondiale in Qatar ha evidenziato che chi a fine partita ha potuto contare su più possesso palla, ha perso.

È andata così in tutte le semifinali, in tutti i quarti, e non solo.

Argentina Croazia 39% a 61 (è finita 3-0 per l’Argentina)

Francia Marocco 40 a 60 (2-0)

Marocco Portogallo 27 a 73 (1-0)

Inghilterra Francia 56 a 44 (1-2)

Olanda Argentina 53 a 47 (ha vinto l’Argentina ai rigori)

Croazia- Brasile 50 a 50

Marocco Spagna 23 a 77 (ha vinto il Marocco ai rigori)

Portogallo Svizzera 48 a 52 (finita appena appena 6-1).

Il tema è più ampio di una semplice polemica giornalistica. Ormai sono tanti gli allenatori che provano a spiegare quanto sia inutile il possesso palla fine a sé stesso. Così come sono praticamente tutti quelli che sottolineano l’inutilità dei cosiddetti moduli: il 4-3-3, il 4-4-2 e via dicendo. Ogni volta provano inutilmente a spiegare che poi in campo gli equilibri cambiano, che si procede per compensazioni e arrangiamenti. Come del resto in ogni lavoro, anche quello giornalistico. Prima ti chiedono un articolo di 80 righe, poi di sessanta, poi magari di settanta con un boxino. È così per quasi tutti i lavori. Ma non cambia niente.

Il tema possesso palla è ancora più evidente e ha conseguenze ben più dannose. Perché ormai è un fenomeno culturale dilagante. E per dilagante intendiamo che si è impossessato delle scuole calcio dove – se vi capitasse di andare – potrete assistere a scene di bambini rimproverati perché provano a dribblare. È un fenomeno che non riguarda più lo sport, nel senso dell’insieme delle misure che una squadra deve mettere in atto per provare a vincere la partita. I dati del Mondiale (e non solo quelli del Mondiale) stanno lì a dimostrarlo. Ormai riguarda la visione della vita. Come se aspettare l’avversario e colpirlo in contropiede fosse considerato socialmente disdicevole, quasi antisportivo. Fateci caso, ormai quando ci si difende scatta immediatamente l’accusa: “hanno messo il pullman”. Non: “hanno attuato la strategia più efficace per provare a vincere la partita”.

Non a caso, subito dopo l’eliminazione patita contro il Marocco ai rigori, l’ex ct spagnolo Luis Enrique non ha minimamente messo in discussione la propria strategia di gioco, anzi l’ha rivendicata. «I giocatori hanno seguito al cento per cento tutte le indicazioni che ho dato loro. Ma tant’è, è inutile pensarci. Non ho rimproveri per i giocatori. Penso che il calcio sia uno sport meraviglioso, ma con una chiara connotazione che una squadra può vincere senza attaccare. Abbiamo completamente dominato e cercato di vincere». È la reiterazione del concetto di “mio calcio”. È ormai l’esibizione egotica della dittatura dell’allenatore che in molti casi si considera, ed è quasi sempre considerato, una sorta di alchimista, un re taumaturgo. Che, di conseguenza, non ama il contraddittorio e quando le scarpe gli vanno strette, risponde in malo modo, non di rado in maniera poco educata.

Lo strapotere dei nuovi allenatori è arrivato al punto che si è messo in discussione il ruolo di centravanti. La Spagna ha ostinatamente voluto giocare senza centravanti. Così come la Germania dove l’esperienza di Guardiola al Bayern ha lasciato impronte importanti. Pure i tedeschi hanno voluto provare il brivido del possesso palla e del falso nueve e infatti per la seconda volta consecutiva sono stati tornati a casa ai gironi eliminatori.

Qualche mese fa, intervistato da Condò per Sky, Carlo Ancelotti (che col Real ha vinto Champions e Liga, non proprio il torneo intersociale) disse: «Abbiamo trovato il nostro equilibrio quando abbiamo arretrato il baricentro». In un contesto normale si sarebbe aperto un dibattito. In quello attuale, la frase è stata messa sotto il tappeto, come se fosse stata pronunciata una bestemmia.

Ieri sul Paìs il nuovo ct della Spagna, de la Fuente, ha rilasciato dichiarazioni da eretico:

“Arretrare, avere la possibilità di giocare in contropiede, è una virtù, un esercizio di intelligenza calcistica. Il problema sarebbe arretrare, mantenere il possesso e non progredire. Se riesci a convincere i giocatori a contrattaccare e fare transizioni rapide, il contrattacco è un approccio intelligente. Ansu, Nico Williams, Olmo, Asensio… Abbiamo giocatori da contropiede”.

La Spagna è il Paese più scioccato dai dati sul possesso palla. È la patria del tiki taka (che ovviamente a farlo con Iniesta e Xavi riesce leggermente meglio) che si è ritrovata a giocare senza centravanti e a non tirare in porta nemmeno per sbaglio. Dalla penisola iberica domenica pomeriggio guarderanno con rancore la finale tra Argentina e Francia. Tra due squadre che si basano sull’attendismo, che fanno perno sulle qualità individuali (pur avendo un’idea di squadra, i due concetti sono complementari!) e che lasciano spesso e volentieri il pallone all’avversario. È più facile andare in porta di rimessa se in squadra hai Mbappé e Julian Alvarez. E Scaloni e Deschamps non sono certo due retrogradi. Sono due professionisti cui può essere applicata la definizione di intelligenza: “Complesso di facoltà psichiche e mentali che consentono di pensare, comprendere o spiegare i fatti o le azioni, elaborare modelli astratti della realtà, intendere e farsi intendere dagli altri, giudicare, e adattarsi all’ambiente”. E se sei intelligente, è più facile vincere un Mondiale.

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