A Sette: «Non dimentico da dove vengo. A volte si rischia di fare il fenomeno, ma basta ricordarsi i sacrifici fatti per restare umili».
Al Mondiale in Qatar ha dato spettacolo col suo Marocco, arrivato in semifinale, risultato mai raggiunto da una squadra africana in novantadue anni di storia. Il centravanti del Bari e della Nazionale marocchina, Walid Cheddira, si racconta a Sette, settimanale del Corriere della Sera.
Fino a tre anni fa Cheddira giocava in serie D a Monte San Giusto, sempre nelle Marche. Acquistato dal Parma che lo ha mandato ad Arezzo, Lecco e Mantova, è finito al Bari per centottantamila euro.
«Il mio sogno di rappresentare il Marocco è diventato realtà, ma è andato molto oltre. Sono stati giorni difficili da spiegare, ma che ricorderò per il resto della mia vita. Sapevamo di essere forti e già prima di partire avevo detto che il nostro obiettivo era quello di essere la sorpresa del Mondiale: siamo arrivati a sognare la finale. Per qualcuno era incredibile, per noi deve essere un punto di partenza, non di arrivo».
Cheddira continua:
«Grazie alle nostre vittorie è sceso in piazza anche il re e questo ci inorgoglisce: siamo molto legati a lui, che è considerato un modernizzatore in Marocco. Io ho cercato di dare il mio contributo, anche se ho il rammarico per l’espulsione ai quarti con il Portogallo sono comunque contento: quando Regragui mi ha chiamato in causa mi sono venuti in mente tutti i sacrifici che avevo fatto per arrivare fino a lì. Anche per me deve essere un punto di partenza, dopo un percorso giusto e graduale, nel quale non mi sono mai sentito sottovalutato, ma ho sempre avuto la fame e l’umiltà giusta. Le stesse che ho oggi: io mi guardo sempre indietro e non dimentico da dove vengo. A volte si rischia di fare il fenomeno, ma basta ricordarsi i sacrifici fatti per restare umili».
Insieme all’arbitro Orsato, che ha diretto la semifinale Argentina-Croazia, Cheddira è stato l’italiano ad andare più avanti nel torneo:
«È un altro motivo di orgoglio per me. L’Italia è il Paese che ha accolto benissimo i miei genitori, il Paese dove sono nato e sono cresciuto: calcisticamente mi sento italiano. Se mi avesse chiamato Mancini? Il mio percorso è partito dal basso, dalle serie minori, non c’è mai stata l’occasione nemmeno nelle nazionali giovanili. E se ci fosse stata non avrei potuto accettare: la mia famiglia è marocchina, così come la mia cultura. Il mio sogno era giocare per il Marocco. Le radici e la cultura sono più importanti del successo e non si devono mai scordare. I miei genitori erano molto emozionati e orgogliosi prima e durante questo Mondiale: ma io non lo vivo come un riscatto, non c’è nulla da riscattare, ma un percorso da godersi, che spero sia solo all’inizio. Mio padre ha giocato anche lui nei campionati minori in Marocco, poi ha deciso di trasferirsi in Italia per cercare fortuna. A Loreto ha trovato lavoro come operaio, ora per fortuna può riposarsi un po’…».
A Cheddira viene chiesto se ha mai subito episodi di razzismo, in Italia.
«Noi ci siamo integrati perfettamente. Per i miei sicuramente all’inizio non è stato semplice in un nuovo Paese, ma quando le persone sono determinate e fanno di tutto per il bene della loro famiglia, allora si trovano a loro agio. Io sono italiano fin dalla nascita, ho sempre giocato a calcio, come mio fratello Mohamed, più piccolo di cinque anni che ora è alla Sangiustese e fa l’attaccante come me. Ho sempre sognato di diventare professionista, anche quando sembrava un obiettivo lontano. Ma non ho mai trascurato lo studio: mi piaceva, ho preso il diploma al Linguistico e parlo italiano, arabo, inglese e francese. Il razzismo? Per fortuna non l’ho mai vissuto. Loreto poi è un paese, ci conosciamo tutti, e tutti si rispettano tra di loro».