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Se l’Italia di Mancini avesse seguito il metodo De Laurentiis, ora saremmo ai Mondiali

Per migliorare bisogna cambiare. Il Napoli ha tracciato la strada, mettendo finalmente in pratica quella rivoluzione attesa per troppo tempo

Se l’Italia di Mancini avesse seguito il metodo De Laurentiis, ora saremmo ai Mondiali
Mg Londra (Inghilterra) 01/06/2022 - Finalissima 2022 / Italia-Argentina / foto Matteo Gribaudi/Image Sport nella foto: Roberto Mancini-Gabriele Gravina

Se Mancini avesse avuto il coraggio di fare in tempo quello che De Laurentiis e Giuntoli hanno fatto quest’estate, oggi l’Italia sarebbe senza alcun dubbio ai Mondiali del Qatar e non saremmo costretti – per la seconda volta, e peraltro stavolta nel bel mezzo della stagione – allo strazio di un Mondiale senza gli azzurri.

Non è campanilismo, sia chiaro. Sottolineatelo pure con tutti i colori che volete. Non è campanilismo fosse solo per il fatto che pure De Laurentiis (così come Mancini) è stato colpevole di aver ritardato a lungo un rinnovamento necessario. Non ha agito in tempo. Forse per ragioni affettive e sentimentali, chissà. Ma al Napolista abbiamo definito, con un’iperbole che rendesse il senso della durezza di una critica ineludibile, il rinnovamento del Napoli come il più estenuante della storia del calcio. Aurelio s’è trovato in difetto di almeno due o tre anni e ha pagato un conto salatissimo, qual è – per un club come il Napoli – una doppia esclusione dalla Champions League.

Alla fine, però, il Napoli questo benedetto cambiamento l’ha fatto. Ed il problemino è che se la Champions si fa tutti gli anni, i Mondiali si fanno una volta ogni quattro. È solo uno dei motivi per cui saltare due Mondiali pesa molto di più che saltare due Champions. Quando si è alla guida di un movimento, purtroppo, non sono ammessi passi falsi. Mancini ha peccato di riconoscenza. Dopo l’exploit dell’Europeo è stato cocciuto nel dare continuità a un gruppo che aveva esaurito spinta propulsiva e ne ha pagato le conseguenze. Che quella spinta andasse esaurendosi non era proprio un mistero. Bastava rimanere attaccati alla realtà per rendersene conto. I verdetti circa i calciatori di quella Nazionale (che giocò un Europeo formidabile, senza dubbio), poco più di un anno dopo, ci mettono di fronte ad alcuni fatti insindacabili: Chiellini, Bernardeschi ed Insigne sono finiti in America; Jorginho, al Chelsea, dopo una stagione mostruosa, ha via via perso un bel po’ di centralità e chi ha seguito la Premier lo sa; Spinazzola e Chiesa, rotti, non hanno praticamente mai giocato a pallone; Bonucci è sul viale del tramonto, salta più partite di quante ne giochi; Donnarumma ha fatto per tutta la scorsa stagione la panchina di Navas. Si potrebbe continuare, ma fermiamoci qui. Intanto, marcavano una crescita evidente i Pellegrini e i Raspadori (anche i Di Lorenzo, che la titolarità se l’è conquistata proprio durante l’Europeo ma che non era ancora un punto fermo), evidenziando la necessità di un ricambio. Mancini si è accorto della situazione ed ha eliminato le rendite ma era troppo tardi. Il Mondiale era già andato.

Il punto è che in Italia (e pure a Napoli) c’è sempre stata una certa riluttanza ai cambiamenti. È tutta una questione di coraggio. Piaccia o meno, nella nostra società oramai liquida e veloce – vale in politica e vale nella gestione delle aziende, e dunque pure nel calcio – per ottenere risultati bisogna essere versatili. E soprattutto in settori come lo sport è inevitabile non cristallizzare le posizioni, ricercare strade nuove, scegliere – se necessario – quelle meno battute. De Laurentiis, finalmente e vivaddio, ha avuto il coraggio di farlo. E ora il suo metodo può e deve essere un faro per il nostro vecchio e stantio movimento calcistico. D’altronde, in qualche modo lo dice anche il cammino europeo del Napoli. Lo dice quest’anno, visto che gli Spalletti boys predicano praticamente in solitudine, ma lo dice in genere, se si pensa al fatto che il Napoli tutto sommato è comunque l’unico club che in Europa ci va da tredici anni consecutivi.

Ovviamente, non sempre cambiare è facile. Se il giorno dopo l’Europeo ci avessero detto che di lì a un anno avremmo sostituito Lorenzo Insigne – appena laureatosi campione – con un georgiano dal nome impronunciabile avrebbero firmato in pochi. Eppure oggi scommettiamo che nessuno (neanche i più romantici, neanche il più insigner degli insigners) tornerebbe indietro rinunciando a Kvara. Ogni cambiamento porta con sé un bel po’ di rischio ma è un rischio vale la pena correre. Anzi, è un rischio che ad un certo punto diventa inevitabile correre. Lo diceva Churchill: non sempre cambiare equivale a migliorare, ma c’è una certezza ed è che per migliorare bisogna cambiare. Che il calcio italiano se lo metta in testa.

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