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Belanov: «Vinsi il Pallone d’Oro al posto di Maradona. Ne era affascinato, gli dissi di non toccarlo»

La leggenda ucraina al Foglio Sportivo: «Se avessi potuto scegliere avrei giocato nel Napoli. Da quando è scoppiata la guerra i miei compagni russi sono spariti».

Belanov: «Vinsi il Pallone d’Oro al posto di Maradona. Ne era affascinato, gli dissi di non toccarlo»

E’ cresciuto nel quartiere popolare di Moldavanka, alle spalle del porto di Odessa. Un posto dove si rischiava la vita.

«Il calcio mi ha salvato, ho perso mio padre quando avevo otto anni, mia madre all’inizio mi fece entrare in una specie di orfanatrofio, se mi avesse lasciato libero sarei diventato un delinquente».

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«Credo che se avessi potuto scegliere avrei giocato nel Napoli. Comunque in Spagna o in Italia. Luoghi pieni di sole e gente che sorride. Noi ucraini del sud siamo gente fatta così».

Vinse il Pallone d’oro al posto di Maradona perché, all’epoca, il trofeo era riservato esclusivamente a giocatori europei, una regola modificata nel 1995.

«Avevo incontrato Maradona proprio nel 1986. Avevamo scherzato su quel Pallone d’oro da cui lui era affascinato. Gli dissi di non toccarlo. Lui aveva vinto il Mondiale e il trofeo di miglior giocatore in Messico. Cosa vuoi di più?, gli chiesi. Gli dissi che si doveva accontentare».

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«Non ho mai considerato quel Pallone d’oro come un successo personale. Forse se lo avesse vinto Maradona, sarebbe stato soltanto suo. Ma nel mio caso era davvero un successo di squadra. Quella Dinamo Kyiv era un’esperienza collettiva, quel premio potevi assegnarlo a uno qualsiasi dei titolari. Avevamo difensori formidabili, senza i quali io non avrei potuto giocare con tanta libertà. C’erano Kutzenzov o Demyanenko, fortissimi, ma si sa che certi premi vanno più facilmente a chi fa i gol. In avanti c’erano anche Zavarov e Blockhin. Eravamo pieni di talento. Io sono stato solo più fortunato degli altri».

Dice che gli mancano i suoi compagni di squadra. Da quando è scoppiata la guerra non ha più parlato con nessuno degli ex compagni russi. Nessuno si è fatto vivo.

«Per me quello che sta accadendo è incredibile. Non ho ancora realizzato gli eventi di queste settimane. È tutto assurdo. Non riesco a capirlo. Fino a pochi mesi fa venivo invitato in Russia a mostrare il mio Pallone d’oro. Ho avuto un sacco di contatti con Sergei Shoigu, che avevo conosciuto ai tempi dell’unione Sovietica e che oggi è il Ministro della Difesa in Russia. Non ho parole. Sempre così gentile con me. Adesso comanda gli attacchi sulla nostra gente. Se potessi parlargli oggi? Beh, l’unica cosa che mi verrebbe da chiedere è se sono andati tutti fuori di testa».

Belanov oggi gira per trincee e ospedali a incontrare feriti o bambini rimasti orfani: è la sua missione.

«Stiamo vivendo una follia collettiva. Quando ho sentito Putin che ci accusava di essere nazisti, pensavo a un orribile scherzo. Ma com’è possibile? Noi non siamo così. L’unica consolazione è che il resto del mondo ci sta conoscendo, sta capendo che siamo gente amichevole e pacifica. Non siamo noi ad aver voluto questa guerra».

Il calcio di oggi non lo incanta.

«Non ci sono più giocatori capaci di coniugare velocità, potenza e grande qualità. Adesso quel che conta è soprattutto la forza fisica, ci sono giocate che facevo io che oggi non rivedo in nessuno. Ovviamente non parlo di gente come Cristiano Ronaldo o Messi, fuoriclasse assoluti, anche se l’ultimo Messi mi fa sorridere. Passeggia per il campo, immagino pensi all’ingaggio… Ma sono cambiati i tempi, le strategie. Io ero uno che divorava lo spazio, in quegli anni i difensori avevano iniziato a giocare in linea, per una squadra organizzata come la Dinamo era uno spasso. Con gli accorgimenti giusti, avevo spazio da mangiare a ogni partita. Era difficile controllarmi. Con un’unica eccezione: Franco Baresi. Era un cane da guardia spietato. Uno straordinario cane da guardia, quando credevi di averlo neutralizzato, te lo ritrovavi tre metri davanti».

Racconta che avrebbe voluto giocare all’estero.

«La possibilità di giocare all’estero non ha nulla a che vedere col denaro. Per me contava il desiderio di provare un calcio diverso, nuove sfide. Ma non eravamo noi a decidere del nostro destino. A un certo punto mi aveva cercato l’Atalanta, ma poi non se ne fece nulla. Altri scelsero al mio posto. Quando finalmente potevamo espatriare, era troppo tardi. Ero fisicamente in fase calante. Giocare in una squadra pericolante in Germania non cambiava nulla alla mia carriera. Fatta questa premessa le assicuro che sono felice della mia carriera, delle tante esperienze che ho fatto, di quello che ho vinto».

Torna col pensiero alla guerra:

«Il mio posto è qui, finché la guerra non finirà. La vinceremo grazie al collettivo, come sempre».

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